Il 16 giugno alle ore 13, presso la sala teatro della Casa Circondariale di Frosinone, presentazione del lavoro del laboratorio teatrale Fiori di Loto della 3 sez. “La riscrittura di un copione: in direzione ostinata e contraria. Letture di questi nostri giorni” Un’esperienza multi-mediale e multi-espressiva, un audio video realizzato dai detenuti precauzionali nell’ambito del laboratorio teatrale attivo da tempo presso l’istituto con Nello, Fabio Marco, Milan, Dino, Enver, Alessio, Luciano e Cosimo.
LA RISCRITTURA DI UN COPIONE: IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA. LETTURE SU QUESTI NOSTRI GIORNI.
I preparativi per l’evento teatrale di un gruppo di detenuti nella CC di Frosinone.
Il copione c’era, era quello sul quale nove detenuti della sezione terza del Carcere di Frosinone stavano lavorando dal mese di maggio dello scorso anno a partire dalla lettura ed analisi di alcuni testi di Fabrizio De Andrè, sollecitati nell’ambito di un laboratorio teatrale lungo un percorso riflessivo multi-espressivo mediato dalla musica, disegno, azioni sceniche, da un’insegnante resasi disponibile, a titolo volontario, e che ne aveva conosciuti alcuni come “studenti” in un corso di scuola media l’anno prima. Agli incontri settimanali, molti dei quali resi possibili per motivi organizzativi della Sorveglianza, anziché nella sala teatro a tale scopo destinata, nell’angusto spazio all’interno della sezione, adibito perlopiù ad “aula scolastica”, i “personaggi con autore” (il poeta cantante genovese) si presentavano con regolare assiduità, fedeli all’appuntamento con le loro emozioni e bisogno di comunicazione creativa. L’ansia cresceva con l’avvicinarsi dell’ultimo sabato del mese di marzo 2020: in quella data avrebbero difatti dovuto debuttare con un evento conclusivo proprio dal titolo “Personaggi con autore”, al cospetto del pubblico dei loro familiari, dei volontari, degli insegnanti e degli altri detenuti della loro sezione di appartenenza. Alla fine del mese precedente, il palcoscenico spoglio delle necessarie attrezzature era stato cominciato ad allestire con l’aiuto di un’Associazione locale che aveva fatto ingresso con il suo tecnico, puntuale nel fornire indicazioni sulla strumentazione per l’erogazione di luci e suoni. Sarebbe bastata qualche altra prova, e finalmente la celebrazione dell’evento! “Celebrazione” e non performance: con l’educatrice o coordinatrice dei lavori, avevano scelto di usare quel termine, per descrivere la finalità del loro prodotto artistico, intendendolo come occasione unica e collettiva per uno speciale diretto incontro, quello con la comunità esterna.
Lo stop traumatico.
Ma come in un classico esercizio di training fisico teatrale, i corpi degli attori in movimento sul palco della sala teatro, si sono ad un tratto, proprio in quel tragico mese di marzo, bloccati nei loro gesti più espansivi e in tensione dinamica, quasi a diventare statuine fredde dalle espressioni contratte e sbigottite dei volti. In quella fase di intensa e trepida attesa, l’eccezionale evento del debutto, sarebbe stato il primo per tutti loro, è stato raggiunto da uno stop inatteso che sembrava voler dire: “Fermiamoci! Semplicemente alt, non muoviamoci. È un obbligo!”. Preceduto da una escalation di informazioni drammatiche sul dilagare della pandemia, accompagnate da quelle delle rivolte violente nelle carceri, in una sorta di reazione a catena. Dell’8 marzo, la notizia della protesta incandescente dei detenuti in questo Istituto, dopo il blocco dei colloqui con i familiari per l’emergenza covid19: causata la devastazione di un intero reparto, con incendi nelle celle, fuga sui tetti.
Un universo scosso: dal microcosmo delle comunità penitenziarie al macrocosmo delle comunità planetarie.
Pochi giorni dopo il commento del gruppo degli attori della sezione terza, raccoltisi con l’educatrice a sufficiente distanza nel salone teatro, per l’incontro settimanale: “abbiamo sentito tremare le mura della sezione accanto, quella vandalizzata, abbiamo temuto l’invasione degli altri nella nostra, qualcuno qui avrebbe voluto aiutarli nella protesta, ma l’abbiamo trattenuto, abbiamo cercato di raccomandargli il controllo, di evitare il contagio negativo della distruttività”. Senza indossare le maschere utilizzate per la recitazione delle parti assimilate e conosciute, ormai a memoria, del consueto canovaccio, i loro sguardi tradivano tuttavia angoscia e spavento, quasi a dire improvvisando: “Ci siamo trovati impauriti e smarriti, presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa”.
Perché proseguire?
E l’insorgere dei loro interrogativi immediati, carichi di dubbiosa ed incerta aspettativa: “Ma proseguiremo il laboratorio, anche se la volontaria non può venire? Proveremo ancora lo stesso copione se le prove sono finite? Quando andremo in scena? Quale palco utilizzeremo, se non si è terminato l’allestimento?”. Alle richieste rivolte in una sala teatro diventata spazio di ascolto inedito per un ripensamento condiviso, seguiva il tentativo di chiarimento attraverso la riformulazione di una domanda centrale posta loro dall’educatrice: “ha un senso o utilità per voi un laboratorio teatrale in questo periodo?”. “Se sì, perché?”.
Alcune delle risposte, tutte convogliate in direzione ostinatamente propositiva: “Per proseguire un percorso di riflessione”, “per continuare a stare insieme in un gruppo affiatato”, “perché in questi momenti mi sento bene”, “perché sinora ci ha fatto esprimere parti di noi che non conoscevamo”, “per esprimere un cambiamento attraverso l’espressione artistica”.
Dalle considerazioni scambiate e dalle intenzioni espresse di non interrompere il laboratorio, è risultato tutto sommato chiaro l’ancoraggio ad un’attività che potesse alleviare anche solo per qualche momento l’oppressione cupa di questi nostri giorni e, al tempo stesso, la condizione di chiusura ed isolamento più accentuate nel carcere; il bisogno di ricucire la separazione dalla comunità esterna, liberando la creatività, la riflessività positiva, riaffermando la cultura come veicolo attraverso il quale ri-leggere o ri-scrivere o ri-disegnare il tempo presente preparandosi a quello successivo una volta usciti dall’emergenza.
E allora, con la stessa metodologia adottata per un anno intero nel laboratorio multi-espressivo ispirato a De Andrè, il proseguire con la raccolta e selezione di altri testi poetici, stralci di interviste a uomini di cultura e di fede, brani significativi sulla contemporaneità tragica dei nuovi giorni, è stato accogliere un invito da loro stessi, per liberare altre parole e farle rifiorire, con una funzione curativa. I testi distribuiti dall’educatrice e portati nelle celle dai teatranti e riportati, tra un incontro ed un altro, dopo esser stati letti e meditati per la capacità evocativa di suscitare immagini, continuavano a stimolare loro disegni ed altri pensieri scritti, che venivano letti a turno davanti ad un microfono posto, contrariamente all’utilizzo corrente, davanti alle sedie vuote della sala teatro, ma con una risonanza incisiva amplificata dal mezzo per ogni componente del gruppo; ed accompagnati dal suono di musiche, scelte da alcuni di loro, come brani di sottofondo alle intonazioni emotive già scaturite dalle letture.
È così che veniva a delinearsi un nuovo canovaccio, che fluiva la riscrittura di un copione, sperimentando ancora una volta una narrazione collettiva accompagnata dal canale espressivo-artistico del teatro.
Scrittura e lettura in un teatro luogo, della narrazione emotiva o spazio riflessivo.
L’essere insieme nel qui e ora lì come davanti ad un pubblico, a leggere una nuova trama tessuta, a condividere un sentimento collettivo di separazione tanto più denso e conosciuto da loro in quanto persone recluse, con nuove regole precauzionali dettate dalle disposizioni interne della direzione, per la redistribuzione numerica dei partecipanti, nel tempo e nello spazio, ha permesso a loro e agli operatori di rimettersi in gioco. Ci si è abbandonati con fiducia, con una rimodulazione progettuale flessibile e non rigidamente strutturata, utilizzando i pochi mezzi a disposizione e riadottando le stesse metodologie, con una straordinaria apertura al cambiamento.
Nel teatro si è trovato non più lo spazio, canonicamente inteso e vissuto come luogo della fisicità, per il contatto diretto con il pubblico e la sua aggregazione, le modalità espressive che prediligono “l’esserci in presenza”; bensì la sperimentazione indotta dall’emergenza, ha consentito loro di prediligere il teatro come luogo della narrazione emotiva con nuove manifestazioni espressive: audiovisive, sulle quali convogliare prodotti grafici (disegni) e vocali (registrazioni di voci narranti), da destinare ad un pubblico eccezionalmente virtuale con uno sfondo scenografico del tutto spoglio: poche sedie, un palco senza le quinte, mezzi essenziali (due microfoni, un mixer collegato ad un pc, un proiettore).
Ciò, scardinato dall’impostazione teatrale tradizionale, in un certo senso “contrario”.
Il processo trasformativo-artistico.
Il trovare un nuovo titolo al canovaccio proprio con quello dell’antologia postuma di De Andrè “In direzione ostinata e contraria”, anche ciò è sembrato restituire il senso di una riscrittura all’insegna della creatività, in un incessante processo trasformativo –artistico.
Un processo, dunque, che avvalendosi della scrittura e della lettura, ha contribuito non solo a costruire relazioni significative, ma a sostenersi reciprocamente nel passare da una zona di paura ad una zona di apprendimento, sino ad una zona di crescita, tracciata nel copione su temi di scottante attualità, assimilabili ad un percorso riflessivo-rieducativo auspicabile per ogni detenuto.
Quando Alessio legge: “Ed ora sono arrivate le tempeste di fuoco nei nostri corpi, isolati come un icerberg alla deriva…Fermiamoci, alt, è un obbligo!” sembra richiamare, con larga approssimazione, la frattura con la vita “normale” provocata dall’arresto e dall’isolamento e dalla restrizione della libertà che ne conseguono, originando quasi sempre rabbia, paura, angoscia.
“Non stiamo bene, nessuno di noi. Stiamo soffrendo”, prosegue Alessio nella sua lettura espressiva, quasi ad uscire dalla traccia del copione per descrivere lo stato di malessere generale che si vive nella condizione detentiva.
Ma è dall’identificazione delle proprie emozioni e la gestione di queste, che si può progredire in una zona di apprendimento. “Nella vita non c’è speranza di evitare il dolore: che tu possa trovare nell’animo la forza per sopportarlo”, legge Dino con riferimento ad una poesia di Tagore.
Il passo ulteriore, per lo sviluppo della trama come per un percorso di rielaborazione fondamentale per un detenuto, è il prender coscienza della situazione in cui ci si trova. Scrive e legge Milan: “La situazione ci invita a guardarci intorno, a farci riflettere”. Questo il presupposto per l’accesso ad una zona di crescita, quella ben esposta nella lettera del suo scritto da Fabio: “Cogliendo tutti gli insegnamenti che la vita mi ha concesso, metto in pratica la calma, la pazienza, la creatività”. Fabio si riferisce al “momento di tragedia mondiale” che sta/stiamo vivendo, sulla scorta di quanto sperimentato in un anno di esperienza laboratoriale in carcere, al di fuori dall’attuale fase emergenziale. Con la consapevolezza cioè che “il mondo della cultura, del teatro, dell’arte, è anche riflessione e ricerca, approfondimento ed introspezione, tesa di mano e solidarietà”, invogliando alla “speranza”. “Vivo nel presente, con la speranza nel futuro, per vivere una vita migliore” scandisce bene la frase di Nello, a conclusione del canovaccio, ma precedendola da un sentito auspicio: “E soprattutto non dovremmo perdere la memoria una volta passata la situazione presente, non dovremmo archiviarla e tornare al punto di prima”.
Come non ravvisare tra le righe a commento su “questi nostri giorni”, l’obiettivo implicito del ravvedimento per un condannato e la sua “storia sbagliata”, ineludibile a prevenzione del rischio di recidiva?
Per quale pubblico, ora?
A quando l’evento conclusivo?
Dal mese di marzo ad oggi, le letture dei partecipanti al gruppo si sono dunque svolte senza alcuna interruzione con impegno e volontà di esprimersi, dando voce a paure e desideri, quale testimonianza dell’arte come strumento per conoscere e controllare le proprie emozioni ma anche di creare nuovi spazi riflessivi cogliendo nuove opportunità d’incontro.
Educare all’ascolto o all’attenzione delle fasi di crisi come quella che stiamo vivendo, di tutta una “comunità dolente”, è apprendere con impegno costruttivo per le comunità, passando dalla centralità dell’”io” al “noi”. Si è ipotizzato allora un pubblico virtuale: di studenti delle due scuole che collaborano con il carcere: il Cpia di Frosinone e l’I.P.S.E.E.O.A “Michelangelo Buonarroti” di Fiuggi. In quanto destinatari di messaggi di persone recluse ma capaci di assumere, in questa situazione, un ruolo attivo attraverso un impegno partecipato.
Grazie alla poesia e testimonianze narrate, i detenuti hanno potuto esplorare il loro mondo interiore per comprendere meglio quello che sta accadendo, misurandosi con problemi di scottante attualità all’insegna del miglioramento, forse contribuendo in parte anche a far superare le forme di pregiudizio che ruotano attorno al carcere.
Le parole scelte, donate, le interpretazioni dei detenuti sui temi trattati, sono state trasposte in un audiovideo per un incontro virtuale, con una scadenza temporale volta ad esaltare la lettura nel cosiddetto “Maggio dei Libri”, esattamente ad un anno di inizio del laboratorio teatrale, generalmente considerata “attività trasversale” in ambito scolastico. Attività che non ha seguito una strada maestra, poiché l’arte non conosce strade maestre, ma quasi sempre impreviste, non lineari ed impervie, con rivelazioni sorprendenti. Anche senza applausi o un sipario da chiudere.
De Santis Patrizia Luisa, funzionario giuridico-pedagogico presso la Casa Circondariale di Frosinone.
È trascorso esattamente un anno dall’inizio del laboratorio poliedrico “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Laboratorio inteso sin dal principio come un cammino, in cui ciascuno ha rispettato l’andamento del proprio passo affinché si riscoprisse e si aprisse all’altro senza artifizi o maschere, ma semplicemente (per)donandosi e donandosi all’altro con autenticità. La meta è stata sin da subito la riscoperta della bellezza, come chiamata al compimento nel senso etimologico del termine. Ogni forma d’arte ne dà esemplarmente fruizione, ma il teatro povero e introspettivo ha costituito lo start di un working in progress dilatato nel tempo e nello spazio. Dal 5 marzo, a causa dell’emergenza sanitaria, ogni attività all’interno della casa circondariale è stata sospesa, per cui la chiusura all’esterno, ha permesso di sperimentare una nuova forma di solitudine, intesa etimologicamente, come la capacità di stare soli in pienezza. Ma in realtà, ciascuno ha scelto di riempire i propri giorni con la forma artistica a sé più congeniale. Si è cercato di dimostrare la vicinanza del mondo esterno, mediante la visione di un video messaggio, realizzato dalla prof.ssa Stefania Patrì, al fine di motivare la fedeltà all’impegno preso camminando, ancora una volta, in direzione ostinata e contraria, verso la meta. Chi ama la montagna e ne solca i sentieri sa che è necessario spogliarsi di tutto il superfluo per raggiungere la vetta. Lo slancio verso l’alto, verso una meta conquistata passo dopo passo, con fatica buona e sensata, ricorda a tutti noi per cosa siamo fatti. Ciascun uomo è fatto per l’altezza. Ciascun uomo è fatto per la bellezza. Infatti, la fatica della salita è sempre ripagata dalla bellezza del panorama. Al servizio dell’eterna bellezza l’uomo riempie la propria e altrui vita, anche quando quella stessa vita è stata colta da un’improvvisa fragilità e sofferenza. Ed è per la gioia degli occhi, del cuore e della mente, che abbiamo pensato di condividere, con un pubblico virtuale, un audio video espressione tangibile di quel barlume di speranza accesa nel cuore di ogni uomo.
Stefania Patrì, insegnante di discipline letterarie presso l’IPSSEOA “M.Buonarroti” di Fiuggi e Cpia di Frosinone