La rivista della Camera penale di Roma, “Centoundici”, ha dedicato l’ultimo numero interamente al tema del 41 bis. In tale contesto compare l’intervista al Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, che qui di seguito riproponiamo.
Lei denuncia da sempre la disumanità e le disfunzioni del cosiddetto carcere duro previsto dall’art. 41 bis, ma secondo Lei il problema sta nel come è applicata la norma o nella sua stessa esistenza, almeno nell’attuale formulazione?
L’idea del possibile vulnus all’articolo 27 della Costituzione, sia nel senso della configurazione di un trattamento contrario al senso di umanità, sia in quello del pregiudizio alla funzione rieducativa della pena, era ben chiaro al legislatore che ha istituito questo regime detentivo speciale nel 1992: non a caso se ne prevedeva non solo una temporaneità di applicazione ai singoli destinatari, ma anche una provvisorietà della stessa norma di legge, che era destinata a decadere passata l’emergenza del tempo, data dalla manifestazione della massima violenza della mafia stragista. Oggi quando parliamo della disumanità del regime speciale evidentemente facciamo riferimento innanzitutto alle sue modalità applicative, sia quanto alla sua reiterazione nel tempo, per decenni e spesso fino alla morte del detenuto, sia quanto ad assurde prescrizioni contenute nella legge e nella circolare applicativa, prima che nei decreti ministeriali. Ciò detto, se la legge consente abusi ed eccessi, è innanzitutto lì che bisogna intervenire, per esempio circoscrivendone i possibili destinatari ai capi di organizzazioni criminali ancora attive sul territorio, restituendo pluralità al controllo giurisdizionale dei decreti ministeriali, prevedendone la inapplicabilità nella fase terminale della pena detentiva.
Ritiene che l’interesse mediatico sul 41 bis scatenato dal caso Cospito possa essere un’occasione per porre i riflettori dell’opinione pubblica e della politica su carcere duro ai fini di una revisione della norma, oppure c’è il rischio che si consolidi l’idea che vada bene per alcuni (i mafiosi) e non per altri?
Obiettivamente la norma è stata pensata come parte della legislazione antimafia ed è quella la sua naturale applicazione, ma le questioni poste da Cospito (non quelle relative alla sua salute, evidentemente, ma quelle che erano nella motivazione originaria della sua protesta) sono questioni che riguardano tutte le persone assegnate al regime speciale e, se c’è disumanità o contrasto con la finalità rieducativa della pena, la violazione della Costituzione vale per tutti, anche per gli appartenenti alle organizzazioni criminali di tipo mafioso. Io credo che il dibattito suscitato dalla protesta di Cospito abbia fatto crescere nell’opinione pubblica la consapevolezza dei rischi nell’applicazione del regime del 41bis, e questo è un bene. Purtroppo, mi pare, da parte politica ci si è fermati sulla questione contingente della gestione del “caso Cospito” e delle sue condizioni di salute, senza il coraggio di affrontare le motivazioni della sua protesta. Responsabilità delle istituzioni è invece ascoltare e confrontarsi anche con le forme di protesta più estreme, per capirne le ragioni e ricondurle su un terreno di dialogo nell’interesse della comunità. Per questo, come Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà abbiamo proposto alle Commissione giustizia di Camera e Senato di avviare almeno una indagine conoscitiva sull’applicazione concreta del 41bis, per verificare la consistenza delle critiche che gli vengono mosse e, se del caso, intervenire con i poteri legislativi che competono al Parlamento.
Esiste, secondo Lei, un modo per bilanciare la pretesa esigenza di contrastare il possibile collegamento fra detenuti e organizzazioni criminali e il rispetto dei diritti umani?
L’unico modo per bilanciare le necessità di prevenzione del 41bis con il rispetto dei diritti umani è di limitarlo nelle applicazioni, nelle prescrizioni e nella durata. Il 41bis non può essere il “carcere duro” di cui si parla sui giornali, una pena di specie diversa per condannati di specie diversa: il nostro ordinamento costituzionale non ammette pene più dure della mera privazione della libertà. Se sono necessarie straordinarie misure di prevenzione da sommarsi allo status detentivo, esse devono essere limitate nel tempo e strettamente necessarie allo scopo di prevenire comunicazioni da parte dei capi agli affiliati delle organizzazioni criminali. Come scriveva Beccaria, “tutto il di più è abuso, e non giustizia: è fatto, non già diritto”.
In questo momento storico, secondo Lei ci sono i presupposti per continuare una battaglia per il superamento del 41 bis?
La storia ci insegna che il sistema penitenziario non riesce a vivere senza un principio di eccezione, senza la possibilità di deroghe al disegno ordinario del suo funzionamento, previste per ogni dove nella legge penitenziaria, anche per i detenuti comuni. Solo per sei anni – tra la legge Gozzini del 1986 che abolì le carceri speciali e il decreto Scotti-Martelli che ha disciplinato l’articolo 41bis, secondo comma, nel 1992 – il nostro sistema penitenziario non ha avuto un regime speciale per detenuti speciali. Anche se ora le organizzazioni criminali di tipo mafioso agiscono in modo molto diverso da quelle del 1992, è difficile scommettere su un superamento del 41bis. Il tema resta tabù e l’uso populista del diritto e della giustizia penale che segna il nostro tempo storico impedisce ogni discussione razionale sul tema. Mi accontenterei di una sua revisione che lo riporti ai limiti fissati dalla giurisprudenza costituzionale ed europea e dai rapporti del Comitato europeo contro la tortura e del Garante nazionale dei diritti dei detenuti.
E per ripensare il sistema carcerario?
Anche qui, il contesto non aiuta (ormai discutiamo addirittura se debba prevalere la prevenzione di un borseggio rispetto alla detenzione di un bambino …), ma la diversificazione degli strumenti sanzionatori delineata dalla riforma Cartabia può aiutarci ad andare verso il carcere della extrema ratio, l’unico carcere in cui sia possibile assicurare umanità e offerta di opportunità di reinserimento. Anche qui, bisognerebbe partire da un paio di principi cardine per limitare l’abuso del carcere. Innanzitutto, bisognerebbe riconoscere la natura intrinsecamente violenta della privazione della libertà in carcere, e quindi escluderla tassativamente in tutti i casi di reati non violenti, in cui la reazione dello Stato può risultare sproporzionata rispetto all’offesa arrecata. Poi, bisognerebbe valutare con attenzione la capacità del nostro sistema penitenziario (in termini di spazi, personale e offerta di servizi di assistenza e per il reinserimento) e fissarne un limite di capienza, istituto per istituto, oltre il quale le pene restano sospese, salvo che siano individuati dalla magistratura i detenuti che possano essere ammessi da subito ad alternative alla detenzione. Potranno sembrare proposte irrealistiche, ma sono molto più facili da adottare ed efficaci nell’applicazione delle stanche litanie sulla costruzione di nuove carceri, sul rimpatrio dei detenuti stranieri e sulle terapie coattive per i tossicodipendenti.
* Intervista pubblicata nella rivista della Camera penale di Roma,“Centoundici”, aprile-maggio 2023.