“Finalmente, grazie alla Corte costituzionale, le relazioni affettive dei detenuti e delle detenute si arricchiscono della possibilità di incontri riservati e cade il tabù della sessualità in carcere. Ora tocca all’Amministrazione penitenziaria garantire l’effettiva possibilità dell’esercizio di questo diritto, a partire dalla individuazione degli spazi necessari alla riservatezza degli incontri con i propri partner”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, dopo aver appreso che la Consulta, con la sentenza n. 10 del 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.
«L’ordinamento giuridico» – ha affermato la Corte – «tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società». La norma censurata, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza. La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. per la irragionevole compressione della dignità della persona
causata dalla norma in scrutinio e per l’ostacolo che ne deriva alla finalità rieducativa della pena. Rammentato che una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità, la Corte ha ritenuto altresì violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, per il difetto di proporzionalità
di un divieto radicale di manifestazione dell’affettività “entro le mura”.
Nell’indicare alcuni profili organizzativi implicati dalla propria pronuncia, la Corte ha auspicato un’«azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze», «con la gradualità eventualmente necessaria».
Infine, la Corte ha precisato che, in coerenza con l’oggetto del giudizio principale, la sentenza non concerne il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, né i detenuti sottoposti alla sorveglianza particolare di cui all’art. 14-bis della stessa legge.
Il diritto all’affettività delle persone detenute
Il diritto delle persone detenute all’affettività e alla sessualità dietro le sbarre è da tempo al centro di numerose iniziative. La questione di legittimità oggetto della sentenza della Consulta di oggi era stata sollevata da Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Spoleto. Lo scorso dicembre era stato lanciato una appello ai giudici costituzionali, promosso dall’associazione la Società della Ragione insieme a Centro per la Riforma dello Stato e Associazione Luca Coscioni, sottoscritto da oltre 200 fra giuristi, associazioni e altre personalità.
Due proposte di legge d’iniziativa del Consiglio regionale della Toscana e del Consiglio regionale del Lazio approdate nella Commissione Giustizia del Senato, durante la scorsa legislatura (relatrice: Monica Cirinnà). Alla base della proposta approvata dal Consiglio regionale del Lazio nella scorsa legislatura c’era una ricerca condotta dall’università dei Cassino e del Lazio meridionale, coordinata dalla ricercatrice Sarah Grieco.