Con la sentenza di venerdì scorso, la Corte costituzionale, nel solco della sua migliore giurisprudenza umanitaria, ha finalmente posto un punto fermo a una questione fondamentale riguardante le modalità della pena detentiva e i suoi limiti nel rispetto della dignità umana.
Già nella proposta di riforma del regolamento penitenziario del 2000, per volontà di Alessandro Margara, si superava il regime dei colloqui “sotto controllo il controllo a vista … del personale di custodia”, ma il Consiglio di Stato eccepì che quel regolamento non poteva derogare alla legge. Il problema fu risollevato nel 2012 da Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di sorveglianza che fu di Margara, con una questione di costituzionalità giudicata però inammissibile dalla Corte costituzionale per motivi procedurali e perché la avrebbe costretta a disciplinare ex novo la materia, entrando nelle scelte discrezionali del legislatore. Riconoscendo però che l’ordinanza di rimessione della giudice di Firenze sollevava “una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale”, la Corte sottolineava che trattavasi “di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore”, auspicandone un intervento risolutivo. Così però non è stato negli anni successivi, nonostante gli indirizzi emersi negli Stati generali dell’esecuzione penale convocati dal Ministro Orlando e nella stessa Commissione ministeriale presieduta dal professor Giostra, il criterio direttivo contenuto nella legge 103 del 2017 e riguardante il “riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute” è stato accolto solo molto parzialmente dal decreto legislativo 123 del 2018: i “locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio”.
Per questo nella passata legislatura i Consigli regionali della Toscana prima e del Lazio poi avevano preso l’iniziativa di una innovazione legislativa non più prorogabile, ma la Commissione giustizia del Senato, che pure ne aveva iniziato a discutere, affidandone la relazione alla senatrice Cirinnà, non riuscì a trovare una maggioranza per portare all’attenzione dell’assemblea parlamentare una soluzione legislativa efficace. Il vulnus costituzionale quindi restava aperto e giustamente il giudice di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, quando se ne sono manifestate le circostanze, ha ritenuto di dover interrogare di nuovo la Corte costituzionale. Il caso era questa volta certamente ammissibile, sia perché rilevante nella risposta che il giudice doveva a un reclamo di un detenuto, sia perché il quadro normativo generale era nel frattempo significativamente cambiato, per il riconoscimento di quel pur minimo principio di riservatezza dei colloqui introdotto dal decreto legislativo del 2018 e per una disciplina specifica introdotta nell’ordinamento penitenziario minorile che definisce le condizioni alle quali sia possibile lo svolgimento di un colloquio riservato.
A questo punto la Corte non ha avuto difficoltà a riconoscere formalmente la incostituzionalità del “carattere assoluto e indiscriminato” con cui l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario stabilisce un “divieto di esercizio dell’affettività intramuraria” nelle condizioni della necessaria riservatezza.
Prudentemente la Corte si dice “consapevole dell’impatto che la … sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare a una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”, ma “il lungo tempo trascorso dalla sentenza n. 301 del 2012, e dalla segnalazione che essa rivolgeva all’attenzione del legislatore” ha imposto “di ricondurre a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità umana”.
Naturalmente il legislatore potrà intervenire, nel rispetto della sentenza, per disciplinare concretamente le modalità di esercizio del diritto dei detenuti al colloquio riservato con i propri partner, ma intanto l’amministrazione penitenziaria, sia in sede centrale che periferica, con l’ausilio e le garanzie prestate dai giudici di sorveglianza, deve essere messa in condizione di rispondere alle legittime richieste che dovessero venire da parte dei detenuti, e la Corte elenca i punti fermi di questa disciplina da adottarsi, se non in via legislativa, in via amministrativa, se non centralmente, localmente: “è … opportuno valorizzare il contributo che a un’ordinata attuazione dell’odierna decisione può dare – almeno nelle more dell’intervento del legislatore – l’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti”, scrive la Corte. Non tutte le prescrizioni fissate dalla Consulta appaiono convincenti, ma costituiscono una soglia minima da cui partire per una disciplina che può essere anche più compiuta.
Intanto però l’importante è che sia caduto il tabù della sessualità nelle carceri, di cui ancora si avverte un’eco nella generale preferenza attribuita in sua vece alla più discreta, oltre che più comprensiva parola “affettività”. Come in tutti gli ambienti sessuofobi (e il carcere lo è), la sessualità non è mai del tutto bandita, ma piuttosto costretta e soffocata, in una condizione che talvolta si manifesta anche in forme violente. Al contrario il suo riconoscimento come «uno degli essenziali modi di espressione della persona umana», come diceva la Corte costituzionale nella sentenza 561/1987, citata tanto nel 2012 che la scorsa settimana, non potrà che migliorare il clima e le relazioni umane all’interno degli istituti penitenziari, con indubbio giovamento per tutti coloro che ci vivono o ci lavorano. Con questo spirito, positivo e aperto al contributo e ai benefici per tutti, speriamo che da domani si possa lavorare tutti insieme nel cambiamento verso cui spinge questa storica pronuncia della Corte costituzionale.