“Vi chiediamo scusa per non esserci”. Tre giovani padri detenuti e quattro bambini dialogano seduti intorno a un tavolo sul palco. “Scusa per non esserci stato in tutti questi anni, per non essere stato presente il giorno del tuo diciottesimo compleanno”, dice un altro padre in un’altra scena. “L’unica cosa che voglio è vederti un giorno svegliarti a casa, trascorrere un Natale insieme e vederti ridere come non fai da tanto tempo”, dice la figlia a un padre “fine pena mai”. Sono questi alcuni frammenti dello spettacolo conclusivo del laboratorio “Credo ancora nelle favole” che si è svolto mercoledì 31 gennaio nel teatro della Casa di reclusione di Rebibbia, e al quale hanno assistito anche i garanti regionale, Stefano Anastasìa, e comunale, Valentina Calderone. A presentare al pubblico lo spettacolo, che coinvolge detenuti comuni afferenti alla sezione media sicurezza, sono intervenute la direttrice dell’istituto penitenziario, Maria Donata Iannantuono, e le ideatrici del progetto, Irene Cantarella e Sandra Vitolo, entrambe psicologhe e psicoterapeute.
Sul palcoscenico dieci attori detenuti si sono esibiti eccezionalmente con figli e familiari per rappresentare emozioni realmente vissute, frammenti di vita così come raccontate nel copione interamente autobiografico. Il lavoro teatrale, dal titolo “Credo ancora nelle favole”, è, come si legge nel pieghevole di presentazione del progetto, “oggettivazione scenica del percorso terapeutico compiuto sull’affettività”. In particolare, è stato affrontato il tema della paternità reclusa e delle dinamiche familiari connesse al reato con le sue conseguenze: da qui la scelta di coinvolgere nella rappresentazione teatrale tutti i componenti delle famiglie dei ristretti. Durante la rappresentazione sono state proiettate numerose diapositive di foto scattate durante la libertà: compleanni, feste in famiglia, vacanze.
Lo spettacolo tocca argomenti relativi alla dimensione di coppia, così come vissuta da detenuti all’interno del carcere e da mogli e compagne all’esterno. “Queste – spiegano le ideatrici del laboratorio – si sono impegnate in un percorso di rivisitazione delle modalità relazionali utilizzate con il partner che si sono concretizzate il più delle volte nel passato e in atteggiamenti giustificanti legati al coinvolgimento affettivo emotivo”.
“La costruzione del copione – proseguono le ideatrici del laboratorio – è stata frutto di incontri di analisi di prospettiva effettuato con i singoli protagonisti e condivisa successivamente nella dimensione gruppale. Analogo lavoro terapeutico è stato esteso ai nuclei familiari, con incontri collettivi a cadenza mensile, che hanno dato luogo alla costruzione di un gruppo attivamente coinvolto all’interno del quale si sono condivise le vicende personali, intime emozioni e le incertezze sul futuro. Il percorso laboratoriale, così realizzato, ha stimolato la rivisitazione critica delle proprie scelte di vita e l’individuazione di risorse interiori per adottare soluzioni funzionali al processo di crescita personale. Il coinvolgimento delle famiglie ha raccontato come anche questo universo affettivo del detenuto siano costrette loro malgrado a scontare una condanna”.
Il materiale autobiografico offerto dagli istituti della casa di reclusione Rebibbia e dalle loro famiglie è stato raccolto e riadattato teatralmente dalle promotrici del progetto e conduttrici del laboratorio che hanno curato e coordinato la direzione artistica della rappresentazione scenica. L’evento teatrale insieme ad attività di backstage rielaborata in chiave cinematografica intervallato dalle interviste ai protagonisti sul valore che l’attività di Teodoro teatroterapia riveste per ciascuno diventeranno un docufilm diretto dal regista Amedeo Staiano, regista del docufilm “Rebibbia liberi di ricominciare”.