Uno spettro si aggira per le carceri italiane, lo spettro delle rivolte. Man mano che i penitenziari si affollano di corpi, man mano che la tragica sequenza dei suicidi scandisce il tempo della inazione governativa, inevitabili si susseguono le proteste dei detenuti, talvolta nonviolente, talaltra contro cose, spazi e simboli della loro costrizione. Devastazione e saccheggio sono i capi d’imputazione generalmente contestati ai “rivoltosi”: i “giorni” (di liberazione anticipata) saltano e le pene si allungano. Finché c’è spazio altrove, i cattivi tra i cattivi sono trasferiti per “ordine e sicurezza”.
Questo sta accadendo in questi giorni in molte carceri (Sollicciano, Viterbo, Torino, Trieste, …), seguendo il tamburo che chiama o denuncia la “rivolta”. E già si intravvede l’argomento anestetizzante dei professionisti dell’ordine e della sicurezza: “c’è una regia, è la criminalità organizzata che vuole mettere a ferro e fuoco le carceri per ottenere il condono per i suoi capi”. L’avevamo sentito durante il Covid, quando al dilagare delle proteste nelle carceri se ne evocò la regia occulta, pur di evitare di chiedersi cosa fosse quello stare chiusi in gabbia durante la pandemia. Poi, due anni dopo, una commissione d’inchiesta ministeriale avrebbe certificato che regia non ci fu, che la protesta era spontanea, scostumata forse sì, ma non indirizzata a sovvertire l’ordine costituito per conto di qualche capobastone. Nel frattempo erano rimasti sul campo tredici e più detenuti e le loro legittime preoccupazioni poterono passare in second’ordine, dopo le sanzioni disciplinari e i procedimenti penali per devastazione e saccheggio.
Funziona così bene l’etichetta della “rivolta” che nel ddl del governo sulla sicurezza essa ha assunto i contorni di un reato a sé, perseguibile anche in caso di resistenza passiva di tre o più detenuti: i casi tipici? Tre detenuti che rifiutano di rientrare in cella perché vogliono far vedere al responsabile della sezione una perdita d’acqua dal lavabo o l’intera sezione che vuole parlare con il direttore, il garante o il magistrato di sorveglianza. Norma criminogena, che non metterà più differenza tra proteste violente (seppure contro le cose) e proteste nonviolente: tanto vale farla grossa, se ci si vuole far sentire. Per questo, almeno per questo, facciamo attenzione alle parole, evitiamo di cadere nel tranello delle “rivolte”: in questa terribile estate italiana, tra sovraffollamento e suicidi, i detenuti protestano come possono, purtroppo qualcuno togliendosi la vita, altri per fortuna alzando la voce. Ascoltiamola se non vogliamo ridurre ancora una volta il collasso del carcere a morti, devastazione e saccheggio, in attesa del reato di rivolta.
*Articolo pubblicato sul quotidiano Il Manifesto di mercoledì 17 luglio 2024.