Cultura è vita nei luoghi di detenzione

di Stefano Anastasìa*

La detenzione, ormai, assume molte forme, neanche tutte associate all’idea di giustizia, ma più spesso a quella di sicurezza: di sicurezza della collettività (pensiamo alle forme di internamento delle persone non imputabili per vizio di mente e a quelle dei migranti privi di permesso di soggiorno), o di sicurezza della stessa persona privata della libertà (come nelle diverse forme di custodia delle persone con disabilità fisiche o psichiche). E’ difficile, quindi, tornare a incasellarla nelle teorie del diritto penale, dei limiti e dello scopo della reclusione quale forma della pena, che peraltro (e per fortuna) ormai trova attuazione soprattutto fuori dal carcere, nella comunità, se non nelle comunità. Non vale la pena, quindi, chiedersi se la reclusione sia destinata a bilanciare il male commesso, a prevenire reati della stessa specie, a impedire coattivamente al suo autore di commetterne altri o a indurlo con l’educazione sulla retta via, come recitano le tradizionali teorie dello scopo della pena. Naturalmente chi vi parla ha preferenze tra queste, ma qui non rilevano. Ciò che conta è che quelle diverse forme di detenzione, per giustizia o per sicurezza, appaiono sempre più indistinguibili, sia nella loro concreta regolazione, sia – soprattutto – nelle persone che vi sono sottoposte, che vi entrano, vi escono e vi passano, spesso dalle une alle altre, pur essendo in minima parte autrici di gravi violazioni di legge e in gran parte invece riconducibili al campo di quelle vite di scarto di cui ci hanno parlato Papa Francesco e Zygmunt Bauman.

Quali che ne siano la causa o lo scopo, la detenzione sempre si sostanzia innanzitutto in una forma di (quasi) isolamento dalla società esterna, dalle relazioni sociali e familiari (pensate che in Italia i detenuti e le detenute continuano ad avere dieci minuti di telefonata alla settimana per parlare con i propri affetti fuori dal carcere, proprio come usavamo – nel mondo di fuori – nel secolo scorso, prima della invenzione e della diffusione della telefonia mobile). Questo quasi isolamento è una forma di spoliazione della identità della persona detenuta, cui l’ambiente detentivo ne offre altre. E’ il fenomeno della cd. istituzionalizzazione, in carcere declinato come “prigionizzazione”: l’istituzione chiede di adattarsi al proprio modello e ai propri scopi, di cura o di custodia. In alternativa, la persona detenuta può aderire ai modelli proposti dalla comunità dei suoi pari, la comunità dei detenuti. Inizia così un gioco delle parti in cui ciascuna persona deve trovare il proprio equilibrio tra le relazioni con i pari e l’adesione al modello istituzionale.

Gli esiti della ricerca di questo equilibrio sono spesso catastrofici nel breve periodo, quello della detenzione, durante la quale in carcere registriamo tassi di suicidi, atti di autolesionismo, abuso di psicofarmaci incomparabili con quelli della società esterna. Ma sono esiti perlomeno incerti anche nel lungo periodo, quello post-detentivo, quando il processo di prigionizzazione finisce e ciascuno torna in libertà con quel che rimane della propria identità pregressa e quel che il carcere gli ha effettivamente offerto. In Italia i dati sulla recidiva di chi sconta la sua pena interamente in carcere sono illuminanti quanto disarmanti: entro cinque anni dal fine pena, il 67% è di nuovo in carcere.

Quel piccolo margine di successo, di reingresso nella società senza immediate ricadute, è generalmente legato ad alcuni fattori: all’età avanzata e naturalmente alla morte di alcune delle persone che erano state detenute, ma per fortuna anche alla permanenza o alla riscoperta di legami familiari e sociali significativi, e – infine – alla capacità di reinventare il proprio Sé valorizzando le relazioni positive coltivate in carcere e le opportunità di crescita culturale, formativa e lavorativa che la comunità istituzionale pure è in grado talvolta di offrire. Queste opportunità sono generalmente offerte, almeno nella esperienza italiana, dal concorso con le istituzioni della giustizia di una pluralità di istituzioni non addette all’esecuzione penale (si pensi, per esempio, agli enti territoriali, alle scuole e alle università), dal volontariato e dalla cittadinanza attiva (si pensi alla puntiforme diffusione delle esperienza artistiche, teatrali, musicali, delle arti visive, al più sostenute dalle istituzioni pubbliche, ma letteralmente inventate da associazioni e artisti che decidono di varcare le mura del carcere per vocazione e sensibilità personali), da una imprenditoria che sceglie di essere sociale, affrontando i rischi e le perdite di un’attività produttiva in un ambiente che istituzionalmente è votato alla perdita di tempo, più che alla sua valorizzazione.

Queste opportunità, anche le più “concrete” e orientate alla pratica, alla formazione e all’inserimento lavorativo, per traguardare lo spazio e il tempo della detenzione e aprirsi al futuro e alla vita che verrà, non possono limitarsi alla triade del sapere, del saper fare e del fare, lungo la quale ciascuno di noi trova il proprio spazio nel mondo, ma devono investire sulla soggettività delle persone detenute, sulla loro riscoperta della propria dignità, sul loro immaginarsi diverse da quello che sono state o dal modo in cui sono state etichettate.

Per questo in carcere hanno così tanto successo i laboratori teatrali, i corsi di scrittura creativa, i laboratori musicali e di arti visive, ma anche la frequenza dei corsi universitari senza immediati fini utilitaristici (si pensi ai condannati a lunghe pene, già in età avanzata, che si iscrivono a corsi universitari senza prospettiva di far valere in futuro il proprio titolo di studio, ma per riempire le loro giornate e arricchirsi personalmente). Le attività di promozione della cultura in carcere hanno successo, nel senso specifico che incontrano l’interesse delle persone detenute, per la loro essenziale gratuità, per l’arricchimento che ciascuno ne ricava, per la capacità espressiva che offrono a chi innanzitutto sente di essere amputato dei propri affetti e dei propri sentimenti, cioè appunto della capacità di esprimersi.

Per questo io credo che effettivamente la cultura sia vita nei luoghi di detenzione, perché restituisce alla vita persone che ne sono come sospese, nella speranza – un giorno – di tornare a viverla pienamente. La cultura è una trama di quella fune della speranza a cui Papa Francesco ha esortato i detenuti ad aggrapparsi in occasione della Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, e a noi fuori tocca lanciarla ai nostri fratelli e alle nostre sorelle diversamente libere.

* E’ il testo dell’intervento di Anastasìa all’incontro promosso dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione e dal Dicastero per la Comunicazione della Curia romana che si è svolto a Roma giovedì 10 aprile 2025, nella Sala San Pio V.