Dopo un anno e più di chiusura sanitaria, il prossimo 2 luglio anche il teatro di Rebibbia Nuovo complesso tornerà alla vita. Una riapertura nel rispetto delle regole di prudenza, con un pubblico esterno limitato, in vista della nuova stagione d’autunno. In occasione del settimo centenario della morte di Dante Alighieri (1321 – 2021), i detenuti-attori attueranno sul palco un progetto di Fabio Cavalli, con il sostegno della Regione Lazio, direzione Affari generali, in collaborazione con il Garante delle persone private della libertà personale e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap).
Dalle nostre “città dolenti”, attraverso la voce degli interpreti detenuti, capaci di appropriarsi della Commedia,
emerge una visione diversa del carcere: un percorso nuovo e difficile, poetico ed etico, attraverso la caduta, la pena, il riscatto.
25 detenuti attori del reparto di alta sicurezza (fra loro alcuni protagonisti del film Cesare deve morire dei fratelli Taviani) riflettono sui concetti di colpa, pena, pietas, speranza, liberazione attraverso le visioni della Commedia.
Sul palcoscenico Dante torna a rivelarsi come poeta senza tempo, capace di parlare dell’umano agire e patire con parole e idee sempre attuali e trasversali a tutti i contesti sociali e culturali.
Mediante traduzioni multilingue (inglese, spagnolo, tedesco) e soprattutto multidialettali colte (Scervini, Donnarumma, Girgenti), le terzine diventano poesia del dolore penitenziario ed il loro ascolto può produrre negli spettatori, ma anche negli interpreti detenuti, un effetto emotivo e spirituale che potrebbe essere paragonato all’idea aristotelica della catarsi.
L’Inferno dantesco assomiglia alla descrizione di un antico carcere. I suoi Canti sono carichi di orrore e condanna per le crudeltà umane, ma anche di pietà per gli sconfitti, di sdegno per le vergogne dei potenti e dei loro servi. Per parlare della detenzione, spesso si evoca la metafora dantesca della “città dolente”: “Per me si va ne la città dolente / per me si va ne l’etterno dolore / per me si va tra la perduta gente…”.
La privazione della libertà è causa di un dolore inesprimibile. Da sempre la giustizia carica questo dolore sul piatto della bilancia come contrappeso per l’ingiustizia commessa dal colpevole.
Dalle più antiche civiltà fino al secolo scorso, l’inferno della pena era previsto per legge e accettato dalla società. Il colpevole era un peccatore. Peccato e Reato erano la stessa cosa.
Era così soprattutto ai tempi di Dante. Ma Dante si eleva sul proprio tempo e su ogni tempo. Dalla cupa visione infernale emergono figure capaci di mantenere una profonda umanità e
dignità, anche nella consapevolezza dell’errore e dell’inevitabile condanna. I grandi “peccatori” danteschi sono portatori universali della emozionante tragedia del vivere e del morire. Per questo, per alcuni di loro, la condanna è come sospesa. La stessa “giustizia divina” non osa infierire. Non osa spezzare l’abbraccio amoroso di Paolo e Francesca. A Ulisse e Diomede – inseparabili artefici di inganni – è consentito di rimanere uniti per l’eternità. Addirittura al Conte Ugolino – pure immerso nel più profondo dei gironi – è concesso di sfogare per sempre il suo furore, affondando i denti nel cranio dell’arcivescovo Ruggieri, l’affamatore dei sui figli.
Dalla disperazione dell’Inferno, Dante esce infine “a riveder le stelle”.