Minimo, liberale, garantista: serve un diritto così e il carcere ridotto all’osso

di Stefano Anastasìa

Nei mesi passati le immagini della spedizione punitiva di Santa Maria Capua Vetere hanno squarciato il velo che copriva le carceri italiane, lasciate a loro stesse durante la pandemia. Se non fosse stato per la solerzia e l’abnegazione di molti operatori sanitari e penitenziari, e per il senso di responsabilità della gran parte dei detenuti, le carceri avrebbero potute essere – al pari delle residenze sanitarie assistenziali – luoghi di morte e di dolore assai più di quanto non siano state. E’ stato anche questo un risultato della politica del “buttare la chiave” attraverso cui siamo passati in questi anni. La Ministra Cartabia, invece, ha voluto dare il segno di un cambio di rotta, non solo recandosi personalmente nel carcere campano dopo aver visto quelle immagini, insieme al Presidente del Consiglio Mario Draghi, ma soprattutto istituendo una Commissione per l’innovazione nel sistema penitenziario, affidata al professor Marco Ruotolo, costituzionalista tra i più attenti al mondo del carcere.

Dopo un primo incontro con la Ministra, nel settembre scorso, la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà ha voluto quindi fornire un contributo ai lavori della Commissione ministeriale, nella speranza che non sia persa la possibilità di una ripresa del percorso di riforma del carcere interrotto bruscamente all’inizio di questa legislatura. Ne inizieremo a discutere in pubblico venerdì e sabato prossimi, a Udine, al convegno organizzato dal garante comunale Franco Corleone e a cui parteciperà lo stesso Ruotolo.

Anche se la prima cosa da fare è sottoporre a un’attenta verifica le disposizioni di legge e di regolamento ancora inattuate, il sistema penitenziario del futuro non potrà tornare a essere quello del passato. La pandemia ci ha insegnato che il penitenziario non può vivere in una condizione di perenne sovraffollamento. In queste condizioni, anche le minime misure di profilassi sanitaria, quelle che bisognerebbe assicurare anche al di fuori dello stato di emergenza, non possono essere garantite adeguatamente. Né la soluzione può trovarsi nell’ampliamento della capacità detentiva degli istituti penitenziari, visto che esso richiede una enorme quantità di risorse finanziarie e umane, non ha tempi di realizzazione rapidi e, come le vicende degli ultimi trent’anni dimostrano, finisce solo per inseguire la domanda di incarcerazione. D’altro canto, proprio la pandemia ha messo in luce, più di quanto non fosse già a conoscenza degli operatori, la vulnerabilità sociale di buona parte delle detenute e dei detenuti, ospitati in carcere per minime condotte devianti e prive di riferimenti esterni per alternative al carcere.

Tra le priorità di un nuovo sistema penitenziario vi è quindi la necessità di tornare a un’idea di diritto penale minimo, liberale e garantista, e del carcere come extrema ratio, riservata solo agli autori di gravi reati contro la persona o connessi alle attività delle organizzazioni criminali. Questo significa non solo che andranno sostenuti i progetti di alternativa alla sanzione detentiva in sentenza già presentati dal Governo, ma anche quei progetti di depenalizzazione di condotte con minima o nulla offensività, a partire da quelli in materia di droghe all’esame della Commissione giustizia della Camera. Nella riduzione del ricorso al diritto sanzionatorio, potranno essere quindi valorizzate nuove forme di composizione dei conflitti tra autori e vittime di reato nella prospettiva della giustizia riparativa.

I garanti territoriali sanno bene che la riduzione e le alternative al carcere passano attraverso politiche di accoglienza e di agency delle persone detenute. Politiche di accoglienza che in questi anni sono state rinforzate dalla integrazione delle risorse e degli indirizzi operativi della Cassa delle ammende e delle Regioni, ma che devono cominciare già in carcere, attraverso la presenza dei servizi anagrafici, dei servizi sociali territoriali e di patronato al servizio delle persone detenute. Altrimenti, come si è visto nella fase più dura della pandemia, anche il possesso dei titoli formali non darà adito ad alternative effettive per la marginalità sociale costretta in carcere.

In questa prospettiva, bisognerà dare efficace attuazione sia agli investimenti per la individuazione di case famiglia, affinché nessun bambino sia più ospite dei penitenziari italiani, sia alla sentenza della Corte costituzionale, in materia di alternative al carcere per i detenuti con gravi disturbi mentali.

Il carcere può e deve essere limitato alla esecuzione penale riguardante i reati più gravi, per pene inevitabilmente più lunghe. Pene per cui è possibile pensare a un percorso di effettiva presa in carico dei detenuti da parte delle aree educative degli istituti penitenziari e su cui è possibile, con il concorso di altre amministrazioni pubbliche (istruzione, centri per l’impiego, ecc.), del volontariato, del terzo settore e del mondo imprenditoriale più sensibile, dare corpo alla prospettiva costituzionale del reinserimento sociale.

In questa prospettiva va superato definitivamente il meccanismo delle preclusioni assolute nell’accesso ai benefici penitenziari, così come indicato dalla Corte europea dei diritti umani e dalla Corte costituzionale anche per gli autori dei reati più gravi, condannati all’ergastolo.

Salvo che per le implicazioni necessarie della restrizione della libertà, la vita in carcere deve poter essere del tutto simile a quella di fuori, innanzitutto tenendo fede a quella ridenominazione delle celle in camere di pernottamento: se camere di pernottamento devono essere, salvo casi eccezionali le porte devono essere chiuse di notte, attivando effettivamente quella sorveglianza dinamica rimasta sulla carta in gran parte degli istituti penitenziari italiani e che invece potrebbe essere fortemente limitata dalla proposta di revisione del circuito di media sicurezza formulata recentemente dall’Amministrazione penitenziaria.

Gli episodi di violenza registrati durante e dopo le proteste occorse all’inizio della pandemia richiedono, oltre all’accertamento delle responsabilità penali individuali a opera dell’autorità giudiziaria, le misure di formazione del personale e di prevenzione già indicate dalla Ministra Cartabia e dal Garante nazionale.

L’emergenza pandemica ha posto finalmente termine al tabù del digitale in carcere. Le videochiamate devono diventare strumento ordinario di comunicazione, accanto e non in sostituzione dei colloqui o delle telefonate. Così come internet deve diventare accessibile sia per le attività didattiche, formative e lavorative che per l’accesso alla cultura e all’informazione. La stessa corrispondenza può finalmente passare in forma elettronica senza mediazioni e costi ingiustificati a carico dei detenuti. Ciò però non giustifica il protrarsi di misure emergenziali che impediscano ulteriormente ai detenuti di essere presenti in udienza, soprattutto nei processi per direttissima, quando tra le responsabilità del giudice c’è anche quella dell’accertamento de visu delle condizioni psico-fisiche dell’imputato, come il caso Cucchi ci ha insegnato.

E poi ancora vanno potenziate e valorizzate le forme partecipative dei detenuti, nella programmazione delle attività, così come nella gestione delle biblioteche e nel controllo delle forniture per il vitto e delle graduatorie per il lavoro, e va a restituita ai detenuti la pienezza dei diritti previdenziali e assistenziali.

E’ giunto il tempo di far passare il diritto alla affettività e alla sessualità in carcere dalle parole ai fatti, portando in approvazione la proposta di legge elaborata e discussa nell’ambito della Conferenza dei garanti, fatta propria dal Consiglio regionale della Toscana e all’ordine del giorno della Commissione giustizia del Senato.

Il servizio sanitario in carcere va potenziato attraverso adeguate dotazioni di personale e il ricorso a forme di telemedicina che non pregiudichino il rapporto medico-paziente. In particolare vanno potenziati i servizi di salute mentale, in modo che il disagio mentale possa essere preso in carico, assistito efficacemente e accompagnato verso soluzioni alternative alla detenzione.

Infine, per uscire con giustizia dalla emergenza pandemica in carcere, bisognerà adottare un provvedimento che consenta ai semiliberi che da più di un anno sono in permesso straordinario di non ritornare in carcere, avendo mostrato oltre ogni ragionevole dubbio la loro affidabilità e correttezza di comportamento, e sottoporre a revisione i procedimenti disciplinari a carico di detenuti che gli accertamenti dell’autorità giudiziaria hanno scagionato da ogni addebito durante le proteste del marzo dello scorso anno. E così nel piano nazionale dei ristori, non può mancare il risarcimento delle condizioni di detenzione subite durante la pandemia, certamente più gravi di quelle ordinarie e di quelle vissute nella società libera. Se a marzo 2020 sarebbe stato utile un minimo, ma generale provvedimento di clemenza, che avrebbe consentito una più efficace e ordinata gestione delle situazioni di rischio in carcere, oggi riconoscere a ogni detenuto un giorno di liberazione anticipata per ogni giorno di detenzione scontato durante la pandemia sarebbe una misura di giustizia e di equità.

(da Il Riformista di mercoledì 10 novembre 2021)

Il Riformista