A seguito della tragedia torinese, in cui due donne, a distanza di poche ore, hanno perso la vita in carcere, il ministro Nordio ha fatto due proposte, una per ridurre il sovraffollamento che affligge il nostro sistema penitenziario, l’altra per alleviare le condizioni di isolamento che le persone detenute soffrono: da una parte il recupero di caserme dismesse per i condannati per reati minori, dall’altra l’aumento delle telefonate settimanali garantite alle persone detenute.
Sulla seconda c’è poco da dire: è una vecchia rivendicazione dell’associazionismo e del volontariato che si occupa di carcere. Se il ministro intende cambiare questo assurdo stato di cose, secondo cui i detenuti hanno diritto a quattro telefonate al mese di non più di dieci minuti, non ha da fare molto: proporre al Consiglio dei ministri una modifica al regolamento penitenziario. Unica condizione è che sia una cosa seria e non la presa in giro annunciata da qualche velina ministeriale, per cui le telefonate passerebbero da quattro a sei al mese, quante ne fanno già la maggioranza dei detenuti privi di rilievi disciplinari.
La comunicazione telefonica fa parte della libertà di corrispondenza garantita dalla Costituzione anche ai detenuti, tanto che ogni notte possono scrivere ai loro cari senza censure che non siano decise dall’autorità giudiziaria. Perché non possono chiamare tutti i giorni, e magari più volte al giorno i loro familiari?
Più complicata, invece, è la questione delle caserme, e non solo per le difficoltà pratiche del trasferimento dei beni dalla Difesa alla Giustizia, per la necessità di riadattarle, per il reperimento del personale, ma per la discutibile efficacia del provvedimento. Il sovraffollamento penitenziario non è un accidente contingente. Da trent’anni, salvo momenti eccezionali, la popolazione detenuta è sempre e costantemente cresciuta, nonostante la stabilità o il calo dei reati, l’aumento delle alternative al carcere (i cui beneficiari equivalgono alla popolazione detenuta) e l’aumento della capacità ricettiva del sistema penitenziario di circa il 40%, da 36 mila a 51 mila posti detentivi. Trovarne altri non cambierà la situazione: saranno presto saturati dall’esercito dei disperati di riserva su cui il sistema penitenziario ha potuto contare finora, assorbendo più detenuti, nonostante altrettanti condannati per reati minori potevano andare in alternative al carcere. Il nodo da sciogliere è cosa vogliamo che sia il carcere. Oggi è l’ospizio dei poveri, i non assistiti da uno Stato sociale in disarmo, che finiscono in carcere perché, come dice il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, «noi non possiamo rifiutarci di accoglierli», come fanno quasi tutte le reti di protezione esterne. L’alternativa all’ospizio dei poveri è il carcere della extrema ratio auspicato dal cardinal Martini e da allora vagheggiato senza successo nei programmi ministeriali.
La crescita delle alternative al carcere è il risultato di quei programmi, certo encomiabili, ma insufficienti. Se il senso comune resta ancorato alla identificazione della pena con il carcere, se per ogni problema sociale governo e Parlamento non sanno far altro che minacciare un nuovo reato o una pena più dura, se i servizi sociali territoriali continueranno a essere depauperati, i più poveri dovranno andare in galera e le alternative serviranno solo a sottrarre ai rigori del populismo penale le persone con mezzi e risorse per cavarsela altrimenti. Dunque, se il governo vuole mettere fine al sovraffollamento, dovrebbero avere il coraggio di porre fine alla bulimia penale di questi decenni, ponendo limiti effettivi all’uso del carcere (escludendolo per i reati non violenti o lasciando in sospeso l’esecuzione di pene minori che non possano essere eseguite in condizioni dignitose), restituendo così al territorio i suoi problemi, ma dandogli al contempo i mezzi per gestirli con un’efficace politica di sostegno e integrazione sociale.
*Articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica di domenica 20 agosto 2023.