Pubblichiamo la prefazione del libro di Sarah Grieco “Il diritto all’affettività delle persone recluse”, edito da Editoriale Scientifica.
«Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile, in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà» diceva l’11 marzo del 1999 l’allora Direttore dell’Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, durante l’audizione davanti alla II Commissione Giustizia della Camera dei deputati in ordine al futuro Regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario. Un carcere vivibile, una pena non afflittiva, non oltre la perdita della libertà di movimento. Questo l’antico sogno dei riformatori di ogni tempo, condito da progetti e propositi di recupero e di reinserimento sociale dei condannati, secondo cui la necessità della pena può diventare l’occasione di una vita nuova. Nonostante le ripetute repliche della storia, mai clementi con i buoni propositi dell’umanesimo penale, quei paletti restano fissi, ben piantati anche nella nostra Costituzione: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (non possono cioè riprodurre mimeticamente l’offesa compiuta dal delitto) e devono tendere alla rieducazione del condannato, devono cioè cogliere l’occasione per offrire al condannato una opportunità di reinserimento sociale nella legalità, nell’interesse dell’intera comunità.
Ne viene di conseguenza l’attenzione dell’ordinamento penitenziario alle relazioni con l’esterno, sia nel senso del mantenimento di quelle relazioni affettive che riempiono di senso la vita di ogni persona, sia nel senso della necessità di coltivare i contatti con quell’ambiente esterno entro cui il condannato dovrà auspicabilmente reinserirsi. Non a caso i colloqui con i familiari non possono mai essere del tutto annullati, neanche nei regimi di massima sicurezza e di sorveglianza particolare, e l’articolo 1 della legge penitenziaria specifica da subito che “il trattamento tende, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale”, per poi annoverare i “contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia” tra gli “elementi del trattamento” (art. 15 OP).
Questo libro di Sarah Grieco – frutto di una ricerca sul campo svolta da una equipe interdisciplinare dell’Università di Cassino nei mesi della pandemia, quando il problema dell’affettività e delle relazioni con la comunità esterna e con i familiari è stato vissuto più drammaticamente dalle persone detenute – dà conto della rilevanza del problema e prospetta soluzioni normative, fatte proprie dal Consiglio regionale del Lazio (committente della ricerca) e proposte al Parlamento con un’apposita iniziativa legislativa.
Nella pandemia, si sa, oltre alle ripetute chiusure al mondo esterno, sono stati prima bruscamente interrotti i colloqui con i familiari e poi sperimentate nuove modalità comunicative, attraverso smartphone messi a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria che hanno fatto cadere il tabù del digitale, che fino al mese di marzo del 2020 era considerato più un pericolo per la società esterna (come se la detenzione in carcere fosse una misura di prevenzione e non di giustizia, in fase cautelare o esecutiva) che un’opportunità di relazione con il mondo esterno per le persone detenute. Oggi si tratta di consolidare quanto la pandemia ha fatto emergere, riconoscendo l’insufficienza delle previsioni normative del Novecento analogico, tuttora vigenti (10 minuti di telefonata alla settimana, un colloquio in presenza alla settimana per una o due ore), e la necessità di andare verso una progressiva liberalizzazione delle comunicazioni con l’esterno (fatti salvi i vincoli stabiliti dall’autorità giudiziaria per ragioni di indagine) con tutti i mezzi che il XXI secolo digitale mette a nostra disposizione, dalle videochiamate alla posta elettronica, fino all’uso dei telefoni personali, come suggerito dalla Commissione ministeriale per l’innovazione nel sistema penitenziario, almeno per i detenuti di media sicurezza e verso utenze identificate e autorizzate. Ne verrebbe una piccola rivoluzione che ci metterebbe al pari di molti Paesi europei ed extraeuropei.
Così come una piccola rivoluzione è necessaria per superare l’altro tabù di cui si tratta in questo lavoro, quello della sessualità: bandita e nascosta, vietata e rubata nelle nostre carceri, quando invece altrove è pacificamente accettata, come componente essenziale del benessere e della dignità della persona detenuta. Il progetto di riforma del regolamento penitenziario che Alessandro Margara illustrava alle Camere nel 1999, proponeva già allora la possibilità per i detenuti di trascorrere con i propri congiunti fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative realizzate all’interno dell’istituto penitenziario, al riparo dal controllo visivo degli operatori penitenziari previsto per i colloqui ordinari. Il Consiglio di Stato obbiettò che la deroga a quel controllo visivo dovesse essere prevista per legge e da allora più nulla è successo, nonostante una pronuncia della Corte costituzionale che pure ha riconosciuto la rilevanza del tema, affidando però a un legislatore troppo timoroso la responsabilità di determinare la disciplina della materia. Qui, in questo libro, si dice come fare, e perché, a partire dalle voci, dai sentimenti e delle esperienze delle persone detenute intervistate nelle carceri di Cassino, Frosinone, Paliano e Roma (femminile). Un patrimonio di conoscenze che è importante divulgare e far conoscere, per superare gli stereotipi e i pregiudizi e per far fare alle nostre carceri altri importanti passi avanti nel lungo e incessante processo di civilizzazione delle pene.