E’ da alcuni giorni nelle librerie “Le pene e il carcere”, di Stefano Anastasìa, edito da Mondadori, per la collana “Lessico democratico”. A darne notizia ai lettori del quotidiano Il Foglio è Francesco d’Errico, presidente di Extrema ratio, associazione culturale no-profit di Bologna, “per un diritto penale liberale, costituzionale e quindi minimo”.
“Nella seconda metà del ‘900 – scrive D’Errico sul Foglio di sabato 1 ottobre – gli studiosi scommettevano sulla decarcerizzazione e auspicavano una significativa umanizzazione dell’esecuzione penale. Le statistiche sugli odierni sistemi penitenziari e l’analisi della loro realtà materiale, tuttavia, conducono oggi a una conclusione opposta, quella della diffusa e tragicamente attuale mass incarceration. Le ragioni ed i fattori che hanno prodotto l’esplosione del ricorso alla privazione della libertà personale sono molteplici e, proprio per questo, vanno letti nella loro complessità, non limitandosi a una lettura giuridico-formale, che pur rappresenta un imprescindibile punto di partenza, ma ampliando la prospettiva d’indagine grazie a un approccio storico e sociologico. Questo è il metodo sposato da Stefano Anastasìa (ricercatore di filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia, nonché Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio e colonna portante dell’associazione Antigone) nel suo ‘Le pene e il carcere’ (Mondadori, 200 pp, 15 €), saggio in cui, tra le altre cose, l’autore riflette sul fenomeno dell’internamento di massa”.
“Per quali ragioni, dunque – prosegue D’Errico sul Foglio – dai primi anni 90, si è assistito a un aumento esponenziale delle persone recluse nel nostro paese? Quali passaggi ci hanno condotto alla quadruplicazione della domanda di controllo e di sanzione penale nell’ultimo trentennio? Due momenti chiave, due eventi fondamentali, uno di ‘importazione’, l’altro prettamente nostrano: le politiche della zero tolerance sbarcata da Oltreoceano e il portato nefasto di Mani pulite. Da un lato, infatti, l’ondata securitaria ha prodotto ‘scelte politico-normative ispirate al principio della massima severità penale’ che, accompagnate ‘all’aggravamento delle pene di reati già esistenti’ e ‘all’ampliamento degli illeciti penali produttrici di incarcerazione’, hanno rappresentato ‘un pilastro della crescita della popolazione detenuta’. Dall’altro, non a caso, Tangentopoli ha mutato profondamente la percezione comune degli istituti di clemenza: da ‘strumenti ordinari di governo del sistema penitenziario’, utilizzati con continuità dal legislatore e fin li assolutamente tollerati dal corpo elettorale, amnistia e indulto si sono trasformati in misure inaccettabili. D’altronde, è in quella fase che si sono affermate le ‘categorie della colpa e della pena come catalizzatrici delle domande di cambiamento a livello di massa’”.
“E se il diritto penale è diventato lo strumento per combattere ogni male sociale – conclude D’Errico -, e il carcere la sua lugubre valvola di sfogo, solo un rigoroso rispetto dei principi garantisti può svolgere una ‘funzione di ecologia della politica’, per liberarla dal ‘fardello dell’individuazione della responsabilità penale per qualsivoglia insoddisfazione sociale diffusa’”.