Bisognerebbe disarmare il conflitto che cova nei penitenziari, cercare di far venir meno il risentimento così come la disperazione dei detenuti, a partire dal riconoscimento della loro dignità di persone e della loro titolarità di diritti
La scorsa settimana si sono tolte la vita cinque persone nelle carceri italiane, che si sono aggiunte alle trentanove registrate da gennaio, per un totale di quarantatré detenuti che si sono suicidati in carcere dall’inizio dell’anno: mai così tanti da quando siamo costretti a tenere questa macabra e dolorosa contabilità. Ogni atto suicidario è un caso a sé, si porta dietro la storia di una persona, le sue sofferenze, non ultima quella della restrizione in carcere, ma ciò non ci esime dalla necessità di interrogarci su quel che accade dietro le mura delle carceri e cosa potrebbe concorrere a motivare una frequenza di suicidi che non ha eguali nel passato.
Nel 2017 il governo condivise con le Regioni l’adozione di un Piano nazionale di prevenzione del rischio suicidario che avrebbe dovuto specificarsi a ogni livello amministrativo, fino ai singoli istituti di pena. Nel 2022 – con 84 casi l’annus horribilis per i suicidi in carcere – il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, firmò una circolare “per un ‘intervento continuo’ in materia di prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. Bisognerebbe verificare che ne è stato, dei piani e delle circolari, anche di quelle più risalenti nel tempo che imponevano l’organizzazione di sezioni di “accoglienza” per le persone appena arrivate in carcere e che ormai non esistono più o sono frammiste a sezioni di isolamento o disciplinari: l’esatto contrario di ciò per cui furono pensate. Ma possiamo anticipare sin d’ora che, se omissioni amministrative ci sono state, magari giustificate dalla carenza di risorse umane dell’Amministrazione penitenziaria così come di quelle sanitarie, non tutto è attribuibile alla mancata onnipotenza amministrativa. Piuttosto è all’ambiente penitenziario che bisogna prestare attenzione, come sin dal 2010 ha rimarcato il Comitato nazionale di bioetica, per capire l’insopportabilità della detenzione in carcere di cui i tanti suicidi sono una spia.
La scorsa settimana, dopo qualche giorno di suspence, il Ministero della giustizia ha finalmente reso noto il numero dei detenuti nelle carceri italiane il 31 di maggio scorso: 61.547, 1.381 in più dall’inizio dell’anno, per un tasso di affollamento del 129% rispetto ai posti detentivi effettivamente disponibili. Dall’inizio della legislatura, sono cinquemila le persone detenute in più nelle nostre carceri. In questa situazione, che potrebbe rapidamente portarci a nuove sanzioni della Corte europea dei diritti umani, dopo il richiamo del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa della scorsa settimana, la gestione degli istituti penitenziari sconta ancora gravissime carenze di personale, di polizia e non solo. Personalmente ho incontrato agenti impegnati in turni di servizio di sedici ore e nel carcere romano di Regina Coeli, che in questo periodo ospita 1150 detenuti, quasi il doppio della sua capienza, nel turno di notte non si arriva a dieci poliziotti in servizio.
Di fronte a questa vera e propria emergenza nazionale, il governo promette nuovi padiglioni penitenziari che non avranno il personale per poter essere aperti e assunzioni di personale che non compenseranno i pensionamenti dei più anziani. Seguono altre fantasie, tipo il rimpatrio di detenuti stranieri che i loro Paesi non vogliono riprendersi, l’utilizzo di caserme dismesse che non si sa chi aprirebbe, il trasferimento coatto dei tossicodipendenti in comunità o l’ultima invenzione di “comunità educanti” finanziate dallo Stato. Intanto la macchina repressiva gira a pieno ritmo, inventando fattispecie penali per ogni cosa, mentre i servizi sociali e sanitari territoriali, che dovrebbero farsi carico della marginalità che in gran parte riempie le carceri (sommando gli affiliati alle organizzazioni criminali e gli altri detenuti per gravi fatti contro la persona non si arriva a ventimila persone) sono depauperati di risorse umane e finanziarie. E mentre si fantastica di soluzioni che stanno tra l’improbabile e l’impossibile, in carcere viene alimentato un clima di tensione: si è iniziato dal taglio delle telefonate straordinarie garantite durante la pandemia e si è passati alla centralizzazione delle autorizzazioni alle attività promosse dalla società civile esterna, all’applicazione di una circolare che impedisce ai detenuti di uscire dalle stanze se non per andare all’aria o per inesistenti attività trattamentali, alla istituzionalizzazione delle squadrette repressive viste all’opera a Santa Maria Capua Vetere e in altre occasioni, fino alla previsione, nel disegno di legge all’esame della Camera, di un reato di “rivolta” carceraria, di cui sarebbe imputabile anche un gruppo di tre detenuti che non rientri dall’aria o in stanza perché vorrebbe rappresentare al direttore, al magistrato di sorveglianza o al garante una condizione di disagio o la violazione di un diritto. E in questo clima ci si sorprende della diffusione di atti di violenza contro gli altri e contro se stessi che registriamo nelle carceri italiane?
Bisognerebbe, invece, disarmare il conflitto che cova nei penitenziari, cercare di far venir meno il risentimento così come la disperazione dei detenuti, a partire dal riconoscimento della loro dignità di persone e della loro titolarità di diritti, per esempio ripristinando quella frequenza di comunicazioni con i familiari che si è avuta durante il Covid e dando attuazione alla sentenza della Corte costituzionale che consente ai detenuti incontri riservati con il/la partner. E bisognerebbe poi affrontare obiettivamente il problema del sovraffollamento, non risolubile nel breve periodo con gli strumenti proposti dal Governo e ormai, temo, neanche con la pur meritoria proposta di Roberto Giachetti per un ulteriore sconto di pena a chi partecipi attivamente all’offerta rieducativa del personale penitenziario.
Bisognerebbe aver il coraggio di dire che anche i migliori propositi, come quelli condivisi dall’Amministrazione penitenziaria con il Cnel, di promuovere attività di formazione e lavoro tra i detenuti per abbattere la recidiva, potranno funzionare solo se la popolazione detenuta diminuisce drasticamente, non solo per adeguarsi ai posti letto, ma anche al personale e alle risorse finanziarie disponibili. E per far questo c’è solo uno strumento adeguato, previsto dalla nostra Costituzione: l’adozione di un provvedimento straordinario di amnistia e di indulto, che cancelli i reati minori ancora da giudicare e anticipi l’uscita dal carcere dei condannati a fine pena: al 31 dicembre dello scorso anno erano 16mila i condannati a cui mancavano meno di due anni alla scarcerazione, il necessario per tirare una linea e ricominciare daccapo. Lo ha detto Giuliano Amato, incontrando i detenuti di San Vittore a Milano: o così o il numero chiuso, non c’è altro modo per riconoscere la dignità dei detenuti. Io mi permetto di integrare: così e con il numero chiuso, in modo che non si torni in futuro a una condizione di sovraffollamento. Si può fare, investendo il necessario sulle capacità di accoglienza nel territorio della marginalità sociale, e garantendo così le migliori condizioni possibili di vita ai detenuti e di lavoro al personale penitenziario.
*Articolo pubblicato sull’huffingtonpost del 17/6/2024, con il titolo “Amnistia, indulto e numero chiuso: cosa deve cambiare nelle carceri”