Facilitare percorsi alternativi per l’uscita dal carcere, in particolare per le persone con problemi di dipendenza, senza trasformare però le comunità di accoglienza in surrogati degli istituti di pena né in carceri private. Lo ha ribadito il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) in una conferenza stampa che si è svolta martedì 21 marzo nella sala stampa della Camera dei deputati. Il dibattito è nato dopo le dichiarazioni alla stampa del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, che ha proposto di trasferire i detenuti con dipendenze dalle carceri alle comunità in “stile San Patrignano”. All’incontro, al quale hanno partecipato realtà del terzo settore impegnate sul tema del carcere e delle dipendenze e alcuni parlamentari, è intervenuto anche Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali.
“Esiste una normativa che prevede già ora l’affidamento in prova terapeutico per le pene fino a sei anni – ha ricordato Anastasìa – e che è pochissimo utilizzato, in modo particolare per chi proviene dalla libertà. Le persone con problemi di dipendenza vi accedono in gran parte dal carcere, perché sono tendenzialmente giudicate inaffidabili in fase di prima valutazione dai magistrati che pure potrebbero concedere l’affidamento in prova dalla libertà per pene fino a sei anni. Si tratta, è bene ricordarlo, della carota che accompagnava il bastone della Fini-Giovannardi: c’era l’inasprimento delle pene e la possibilità di affidamento in prova ai servizi sociali fino a sei anni di pena, ma poi sappiamo come è andata a finire, ha funzionato solo il bastone e le carceri si sono riempite all’inverosimile. Sia chiaro: tutti vogliamo che le persone con dipendenza non stiano in carcere e abbiano la possibilità di accedere a pene alternative, ma servono programmi e percorsi individualizzati, integrati con l’offerta dei servizi sul territorio, che vanno potenziati nella capacità di presa in carico al termine dell’esperienza detentiva o comunitaria. La monocultura della disintossicazione forzata e della comunità chiusa fallirà come fallisce da trent’anni nel trattamento delle dipendenze patologiche”.
“Sappiamo quanto il carcere sia inadeguato e generatore di recidive – ha dichiarato nel corso della conferenza stampa la presidente della Cnca, Caterina Pozzi – E’ dimostrata invece l’efficacia delle misure alternative alla detenzione nel ridurre fortemente la ripetizione di reati. Ma lavoriamo sul campo da oltre 40 anni e abbiamo la responsabilità di fare chiarezza rispetto a una comunicazione pericolosa. In particolare, ci troviamo a dover puntualizzare due aspetti: da una parte, vogliamo ricordare che esistono già normative che permettono pene alternative alla detenzione. C’è ancora tanta strada da fare per ampliare e rendere realmente attuabili tali misure. Inoltre, bisogna investire a livello economico per l’implementazione di queste buone prassi, costruire protocolli d’intesa tra i diversi attori in gioco (magistratura, sistema penitenziario, Serd, enti locali, enti del terzo settore), insomma occorre fare cultura su questo tema, anche con il coinvolgimento dei diretti interessati”.
Per Pozzi, “il secondo aspetto è che le comunità non sono surrogati del carcere, ma sono strutture aperte e inserite sui territori. Riprodurre le logiche e l’organizzazione carceraria in strutture private non potrebbe far altro che ripetere e moltiplicare i fallimenti del carcere in questo difficile ambito”.
Su circa 15.000 detenuti tossicodipendenti solo circa 3.000 hanno avuto accesso all’affidamento nel 2021, secondo i dati dalla Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia. Per il Cnca non si risolve il problema del sovraffollamento carcerario moltiplicando gli spazi di detenzione.
“Educare, non punire, è la strada maestra – ha aggiunto Riccardo De Facci, consigliere nazionale del Cnca con delega alle dipendenze – La proposta che abbiamo letto, invece, contiene una visione punitiva del tossicodipendente e non affronta le reali difficoltà delle carceri. Il Cnca e le realtà terapeutiche rifiutano il mandato contenitivo e di controllo. Rifiutiamo con forza la trasformazione delle comunità in carceri private. Il modello stile San Patrignano citato dal sottosegretario non ci rappresenta, non rappresenta le comunità terapeutiche, non lo rappresentava negli anni ’80 e non lo rappresenta ora. Se la logica sarà solo contenitiva siamo pronti alla disobbedienza civile”.