Vive vita difficile la rivoluzione gentile che ha chiuso gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Non certo per il lavoro e l’impegno degli operatori delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che possono certamente rendicontare un’efficacia di trattamenti incommensurabile con lo stato di dimenticanza cui erano in gran parte destinati negli ex-manicomi criminali gli autori di reato non imputabili per incapacità di intendere e di volere al momento del fatto. No, la vita difficile della legge che fu frutto della inchiesta svolta dalla Commissione del Senato sul servizio sanitario presieduta da Ignazio Marino e della indignazione che ne seguì, prima tra tutte quella del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è dovuta al limite di una riforma applicata in un solo segmento della complessa filiera che vede incrociarsi psichiatria e giustizia penale. E’ così che le Rems sono assediate da un eccesso di input e da difficoltà di output, producendo la lista di attesa di cui tanto si discute, fino alla Corte costituzionale e alla Corte europea dei diritti umani.
Nonostante le indicazioni della legge, del Consiglio superiore della magistratura e di numerosi protocolli sottoscritti dalle Regioni con i capi degli Uffici giudiziari, la misura di sicurezza detentiva in Rems non è applicata secondo il principio di extrema ratio, soverchiato dall’alleanza tra le consulenze difensive dei periti (che raramente interpellano i servizi territoriali, come previsto dai protocolli d’intesa tra Regioni e Uffici giudiziari) e la giurisprudenza difensiva che, per sicurezza, associa de plano la malattia mentale alla pericolosità sociale. Da qui l’ingolfamento in ingresso nelle Rems e una parte della lista d’attesa: una capienza nazionale stimata sulla base del principio di extrema ratio deve far fronte a una domanda di internamento del tutto simile, nelle proporzioni a quella di quando gli Opg erano al massimo della loro capienza.
L’altra parte della lista d’attesa è generata invece dalla difficoltà in uscita dalle Rems. Niente a che vedere con lo stato di abbandono in cui versavano gli ospiti degli Opg: le equipe Rems sono generalmente in condizione di definire il Programma terapeutico riabilitativo individuale entro i termini previsti di 45 giorni e nel tempo medio di 12-18 mesi sono in condizione di accompagnare il rientro dei pazienti a domicilio o in strutture non contenitive. Ma anche sull’output si riversano problemi che non sono delle Rems. Ancora una volta problemi culturali della giurisdizione, che in molti casi pretende di valutare secondo i tradizionali parametri rieducativi del penitenziario l’efficacia di trattamenti che sono esclusivamente socio-sanitari. Ma a essi si aggiungono i problemi della rete di assistenza territoriale. In qualche caso i servizi territoriali, carenti in risorse umane e finanziarie, non collaborano con le equipe Rems nella definizione del PTRI, frequentemente la rete dei servizi territoriali non è in condizione di individuare strutture di accoglienza per chi avesse bisogno di una soluzione residenziale per l’esecuzione della libertà vigilata seguente all’internamento in Rems.
Questi sono i problemi delle Rems e delle liste d’attesa, aggravati dalla preponderanza di misure di sicurezza provvisorie, quando non è ancora decisa la non imputabilità dell’accusato, con il rischio di avviare un programma terapeutico che non potrà essere portato a termine, e dalla destinazione in Rems di persone che – avendo commesso il reato sotto abuso di sostanze stupefacenti – erano sì incapaci di intendere e di volere al momento del fatto, ma non erano e non sono pazienti psichiatrici, e dunque non possono avere alcun beneficio dal soggiorno in Rems.
Questi, in soldoni, i problemi delle Rems, che poi non sono delle Rems, ma di tutto quello che gli gira intorno. Per affrontarli bisognerebbe circoscrivere i casi di possibile internamento, sollecitando la magistratura a una applicazione strettamente necessaria della misura dell’internamento in Rems, e potenziare la rete dei servizi territoriali, in modo da garantire sia l’assistenza in libertà vigilata in alternativa o al termine dell’internamento, sia la collaborazione con l’equipe Rems per la definizione dei piani terapeutici riabilitativi dei ricoverati.
La vulgata e il senso comune pensa invece di affrontare tutto ciò aumentando i posti in Rems, acconciandosi sul loro uso non strettamente necessario e rischiando di trasformarli in nuovi piccoli Opg verso cui indirizzare tutte le persone a diverso titolo giudicate incapaci di intendere e di volere al momento del fatto o addirittura destinandovi anche le persone – perfettamente consapevoli del fatto commesso – che manifestino successivamente un disturbo psichiatrico, per i quali, invece, la Corte costituzionale sin dal 2019 ha indicato la strada delle alternative al carcere per motivi di salute. Accade così che alcune Regioni, come il Lazio, abbiano già aumentato la capienza della rete Rems, non chiudendo una Rems provvisoria al momento dell’apertura di quella definitiva che avrebbe dovuto sostituirla. E accade che il Governo decida (nel decreto energia, e cioè in evidente violazione del principio di omogeneità di materia) di assegnare nuove risorse alla Regione Liguria per aprire una nuova Rems, non già in luogo di quella provvisoria che avrebbe dovuto essere chiusa, ma accanto a essa. Peraltro: alla Regione Liguria che non ha lista d’attesa, sul presupposto che vi possano essere assegnate persone provenienti da altre regioni, in violazione del principio di territorialità del trattamento socio-riabilitativo.
Ovviamente, non si discute di una scelta di investimento finanziario, che se fosse sulla rete dei servizi di salute mentale dedicati (anche) al sostegno dei malati di mente autori di reato sarebbe il benvenuto, ma la sua destinazione esclusivamente all’attivazione di una seconda Rems in un territorio che non ne ha necessità, per di più con la curiosa definizione di “Rems sperimentale”, cui non corrisponde alcuna altra previsione normativa. Se si è trattato di una svista, speriamo che il Governo voglia rimediare subito, evitando di introdurre nell’ordinamento una legittimazione di strutture di incerta qualificazione in un campo (quello della privazione della libertà) in cui nulla si può fare che non sia previsto e organicamente disciplinato per legge. Se, invece, c’è dietro una ipotesi di riforma della legislazione in materia, la si stralci e la si rimetta alla corretta competenza delle commissioni giustizia e affari sociali, nell’ambito di un provvedimento autonomo, secondo le procedure legislative ordinarie.
(Articolo pubblicato su Il Riformista di martedì 5 aprile 2022)