Anche Edward alla fine ce la farà: uscirà dalla sezione Nido del carcere femminile di Rebibbia, lasciandola vuota e inutilizzata, speriamo per un tempo non brevissimo. Purtroppo, però, Edward non uscirà con la mamma, che invece resterà lì. Edward andrà, da solo, in una casa famiglia. Il Tribunale per i minori ha deciso così, valutando la madre (e il padre) inidonei alla potestà genitoriale, probabilmente per quella lunga lista di precedenti e condanne che Naza si porta dietro e che le ha impedito di accedere alla detenzione domiciliare. E nulla conta che nessuna di esse sia per reati contro la persona, né – tantomeno – reati violenti. E nulla conta che Naza curasse amorevolmente Edward in carcere, come i suoi dodici fratelli e sorelle lasciati già prima fuori da lì. Conta solo una lunga storia di devianza e di sopravvivenza, al di fuori delle regole e del diritto penale. Così andrà a finire la storia dell’isolamento di Edward, 2 anni, nel carcere di Rebibbia femminile.
Ciò detto, mano a mano, uno a uno, i bambini fino a ieri ospitati nella sezione Nido del carcere femminile di Rebibbia sono usciti. E si tratta di un evento straordinario. Da che io ricordi (e ho l’età, più che la memoria, per ricordare tempi abbastanza lontani) non era mai accaduto negli ultimi trent’anni. C’è voluta la minaccia del Covid19 perché fossero adottati tutti gli strumenti già presenti nell’ordinamento per consentire a (quasi) tutte le mamme di Rebibbia di avere alternative alla detenzione in carcere. Il 31 gennaio a Rebibbia c’erano 15 donne con 15 bambini, a fine febbraio 13, a marzo 10, ad aprile 4, il 31 maggio solo 2: Edward e un suo coetaneo, destinato a seguire la madre in un programma di protezione per collaboratori di giustizia.
Naturalmente, va dato merito a molte e molti di questo straordinario risultato, a partire dalla direzione e dagli operatori dell’istituto penitenziario, fino ai magistrati competenti, di sorveglianza e non. Ma un riconoscimento speciale va all’associazione A Roma insieme e al consorzio che anima la Casa di Leda, la prima casa-famiglia protetta per detenute madri e figli minori voluta – prima ancora che dalle istituzioni competenti – da Leda Colombini, che di A Roma insieme è stata fondatrice e animatrice, al termine di una vita dedicata con passione alle libertà e alla giustizia sociale.
In una situazione di emergenza, dunque, c’è stata una risposta all’altezza delle necessità, e di questo bisogna rendere merito a tutti gli attori coinvolti. Ciò detto, la necessità è che nessun bambino sia più costretto in carcere, e non solo in questo difficile momento di emergenza. I bambini nella primissima infanzia non possono essere privati dalla relazione materna così come della possibilità di crescere in un ambiente libero e possibilmente ricco di stimoli. Dunque, il problema è come consolidare questo risultato momentaneo, estenderlo al territorio nazionale e farlo corrispondere alle durevoli necessità dei bambini e delle bambine.
Qualcosa, certo, si potrà ancora fare, sul piano normativo, dopo i ripetuti interventi delle leggi del 1998, del 2001 e del 2011, in particolare in casi come quelli che hanno impedito a Naza di uscire dal carcere con il figlio: siamo proprio sicuri che qualsiasi pericolo di recidiva possa bastare a interrompere la relazione tra madre e figlio, ovvero a costringere il bambino a fare ingresso in carcere?
Ma molto va fatto anche sul piano amministrativo. A nove anni dalla loro previsione, sono solo due le case-famiglia protette sul territorio nazionale: quella di Roma e una a Milano. La legge del 2011 ne affidava l’individuazione agli enti locali, sulla base delle caratteristiche definite dal Ministero della Giustizia. Purtroppo, però, nulla diceva dei mezzi per realizzarle. A Roma si è provveduto con la destinazione, da parte della Giunta Marino, di un immobile confiscato alla criminalità organizzata a un consorzio destinato a gestirla grazie al contributo della Fondazione Poste, prima, della Regione Lazio dallo scorso anno. Casa di Leda, che può ospitare sei donne con i propri figli, costa circa 150mila euro l’anno. Negli ultimi trent’anni, mediamente in carcere ci sono state tra le 40 e le 60 madri con figli. Dunque, per far fronte alle necessità di accoglienza delle madri detenute, basterebbero dieci case e un milione e cinquecentomila euro l’anno da destinare a un fondo speciale a beneficio degli Enti territoriali che si assumessero la responsabilità di realizzarle. Oltre a storiche associazioni come A Roma Insieme e Bambinisenzasbarre, anche Cittadinanzattiva sta lavorando in questo senso, e sia la Regione Piemonte che l’Emilia-Romagna sono pronte a fare la loro parte. Si può fare, si faccia!
Resterà, poi, la parte più difficile, che è quella della cultura, dell’effettivo riconoscimento della prevalenza dell’interesse del minore di fronte alla pretesa punitiva o cautelare dello Stato. In questi primi quattro anni di attività, Casa di Leda si è riempita solo con il Covid19 e all’epoca della tragica morte a Rebibbia di due bambini a opera della loro madre in uno stato di alterazione mentale. Solo due drammatiche emergenze hanno reso evidente l’intollerabilità della detenzione in carcere degli infanti. Questo, ahinoi!, è un problema di testa: il “mai più” deve essere tale che sbarri la strada a ogni prudente giustificazione, che finirà per motivarne altre e poi altre e poi altre, nella spirale senza fine che ha reso vani ben tre interventi legislativi e innumerevoli impegni politici. Questa è la parte più difficile, ma questa spetta a ciascuno e ciascuna di noi, giorno dopo giorno, senza soluzione di continuità.
Il Riformista 10/06/2020