Sono entrati in vigore, la scorsa settimana, i tre decreti sopravvissuti dell’ambizioso progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario auspicato da Andrea Orlando quando era Ministro della giustizia dei Governi Renzi e Gentiloni, e sembra essersi chiuso definitivamente un ciclo nella storia recente delle carceri italiane. Quella insolita attenzione emersa improvvisamente a seguito delle ripetute condanne da parte della Corte europea dei diritti umani, per le condizioni di sovraffollamento delle carceri, e quindi per i trattamenti degradanti che ne potevano conseguire, è ormai lontana. Solo un gravissimo caso di cronaca, una tragedia fino a ieri sconosciuta in ambiente penitenziario, la sofferenza di una madre rivolta verso i suoi bambini piccolissimi, ha riportato per qualche giorno l’attenzione su quel mondo separato a cui affidiamo la rimozione del male e delle nostre paure. Ma è stata l’attenzione di un momento, non senza qualche morbosa curiosità e reazioni istituzionali sopra le righe. Poi, nel silenzio generale, il Consiglio dei ministri ha chiuso la pratica aperta con gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal precedente Governo, approvando un minimo aggiornamento dell’ordinamento penitenziario ai cambiamenti più rilevanti consumatisi negli ultimi quarant’anni, le norme specifiche per l’esecuzione penale minorile (attese dal 1975!) e nuove norme a sostegno del lavoro penitenziario.
Non è questa la sede per un’analisi dettagliata di questi decreti, ma salta agli occhi una mancanza, in cui si sostanzia il principale contributo portato dal nuovo governo all’elaborazione del precedente: la cancellazione di ogni riferimento alle alternative al carcere per gli adulti. Sono stati cancellati tutti gli spiragli che la Commissione presieduta dal professor Giostra aveva individuato per potenziare l’area penale esterna e per superare la centralità che la privazione della libertà ha ancora nel nostro sistema di giustizia penale. Tale era la preoccupazione per simili scelte che, addirittura, sono state cancellate anche quelle specifiche misure mirate alla presa in carico e alla cura all’esterno del carcere delle persone con gravi problemi di salute mentale.
Lo scandalo del sovraffollamento sembra dimenticato e, sotto lo slogan della certezza della pena, torna la confusione tra carcere e pena, e già si annunciano nuovi progetti per la realizzazione di altre carceri. Bisogna allora rammentare ai nuovi governanti, ai vecchi opinionisti, al colto e all’inclita, che carcere e pena non sono equivalenti: il carcere è solo una tra le diverse modalità di sanzione penale e di restituzione del debito sociale contratto con la commissione di un reato. Il nostro ordinamento ne conosce già molte altre, diffusesi significativamente nei quarant’anni che ci separano dalla riforma penitenziaria. Migliaia di persone ogni anno pagano il loro debito senza passare dal carcere, e molti che vi sono entrati terminano la loro pena sotto la supervisione degli uffici per l’esecuzione penale esterna. Non sono condannati quelli che tutti i giorni svolgono attività in affidamento in prova al servizio sociale o che non possono uscire di casa a pena di essere condannati per evasione? Non siamo certi che stiano scontando una pena?
La pena detentiva è una pena molto costosa e molto pericolosa. Chiunque sia entrato in un carcere sa quanta sofferenza produca quell’isolamento dal mondo e dagli affetti e quali rischi in termini di salute e di effettiva possibilità di reinserimento essa comporti. Per questo essa va limitata a casi eccezionali, dovrebbe essere una extrema ratio, come diceva – primo fra tutti – Carlo Maria Martini, privilegiando misure alternative che possano arricchire la comunità e il condannato attraverso la produzione di benessere sociale e un effettivo reinserimento in attività legali.
Purtroppo questa elementare verità continua a essere misconosciuta e occultata e si continua a proporre alla cittadinanza un rimedio che è peggio del male: chiudere tutti i condannati in carcere per un periodo più o meno lungo. Come se il carcere fosse di per sé rieducativo o come se di là i “cattivi” non dovessero più uscire. Invece, per fortuna, la grandissima parte delle persone detenute escono dal carcere e, inevitabilmente, restituiscono alla società quello che la società ha dato loro: solidarietà e legalità, se questo gli è stato garantito dietro le sbarre; rabbia e illegalità se hanno vissuto in condizione di abbandono e di sofferenza.
Già da alcuni anni la popolazione detenuta è tornata a crescere, nonostante tutti gli indici di delittuosità ci dicono che non si commettono più reati che prima, nonostante la società italiana non è mai stata così “sicura” e pochi altri contesti nazionali possono godere, nel mondo, della nostra “sicurezza”. Il 31 ottobre scorso in carcere c’erano di nuovo poco meno di sessantamila persone, quasi quanti nel 2006 giustificarono l’adozione di un provvedimento straordinario di clemenza e nel 2013 motivarono la sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani. Se la confusione tra certezza della pena e certezza del carcere dovesse continuare, non è difficile prevedere che arriveremo presto a una nuova crisi del sistema. Lasciamo perdere dunque i velleitari progetti di far fronte al sovraffollamento con nuove carceri. In Italia un carcere non si costruisce in meno di venticinque anni: e nel frattempo che si fa? E ammesso che ci siano i soldi per costruirle, ci saranno anche quelli per gestirle? a partire dalla necessaria assunzione di altro personale? Lasciamo perdere, dunque, le battute d’occasione e pensiamo alla realtà, a quelle migliaia di persone costrette a vivere in condizioni disumane in spazi insufficienti e senza adeguata assistenza, educativa, sociale e sanitaria. Perché di questo si tratta: più crescono i detenuti, meno l’amministrazione penitenziaria può offrire loro, e meno possono fare le associazioni di volontariato, le Regioni, gli enti locali e la società civile esterna, le cui risorse, anch’esse sono limitate e non possono farsi carico di una così vasta domanda di giustizia e di sostegno nel reinserimento sociale.
Ma, si dice, questo vuole la gente: tenere chiusi in carcere i “criminali”. Ma non è sempre stato così e non è necessario che sia sempre così. La gente chiede quel che gli si offre: se si cerca la via facile del capro espiatorio, sarà facile che questo vorranno, qualcuno da mettere in galera per sentirsi più sicuri, almeno fino a quando non se ne dovrà trovare un altro da mettere sul banco degli imputati. Altrimenti si può scegliere la strada della convivenza, in cui la sofferenza sociale così diffusa fuori dal carcere possa trovare risposte in un altro vocabolario, lontano da quello della colpa e della pena. Un vocabolario fatto di solidarietà, inclusione e crescita comune. Sì, so bene che sembrano indicazioni un po’ astruse, soprattutto in bocca a una persona che, seppure provvisoriamente, risponde di un pretenzioso incarico di garante delle persone private delle libertà in ben due regioni, e che quindi deve quotidianamente trovare risposte alle domande di persone in carne e ossa (uomini e donne detenute, parenti, familiari e amici), ma non sono un inutile divagare. Tutti i giorni noi che rivestiamo incarichi istituzionali a tutela dei diritti dei detenuti, così come le amiche e gli amici impegnati nel volontariato e gli stessi operatori dell’amministrazione penitenziaria e delle altre amministrazioni pubbliche presenti in carcere, dalla sanità all’istruzione, tutti i giorni dobbiamo fare la nostra parte, e ogni minimo risultato raggiunto darà ragione al nostro impegno, ma tutti noi sappiamo che il mare non si svuota con un bicchiere e che quel che di buono potremo fare in carcere dipende direttamente dalla prudenza con cui vi si farà ricorso. Speriamo, dunque, che i nuovi governanti vogliano ascoltare le parole e l’esperienza di chi conosce il mondo del carcere: ne riceverebbero, come da ogni ascolto, più di quanto non dovessero aver dato.