Chi ce lo fa fare?

di Stefano Anastasìa*

*Prefazione al “bianciardino”, liberamente scaricabile on line, di Sandra Berardi e Francesca De Carolis “Chi ce lo fa fare…/Non possiamo fingere di non sapere”, pubblicata con il titolo “Uno su mille”.

“Chi ce lo fa fare?”: bella domanda questa che Francesca De Carolis e Sandra Berardi si fanno e ci fanno nelle pagine che seguono. Quante volte me lo sono chiesto, nella mia vita di ergastolano dei diritti in carcere (ci sono entrato la prima volta trentasei anni fa, quando ne avevo solo ventitrè, tutti i capelli e la sfrontatezza dell’età): quante volte mentre attraversavo l’Italia, per un dibattito, una visita, una riunione; quante volte mentre sacrificavo le sere, le domeniche e le vacanze; quante volte mentre costringevo la mia compagna e i miei figli a rinunciare a qualcosa per qualcuno che loro non avrebbero mai visto, e forse neanche io.

Bella domanda, chi ce lo fa fare a dedicare una parte, se non gran parte della nostra vita, senza nessun obbligo familiare o professionale a chi è costretto in carcere? Chi ce lo fa fare a consumare il nostro tempo e le nostre energie per condividere le innumerevoli frustrazioni delle persone detenute, dei loro familiari, degli operatori penitenziari motivati, dei sanitari, degli avvocati e dei magistrati scrupolosi? Per loro è la vita, sono affetti, lavoro, ma per noi?

Uno dei miei fratelli maggiori, con cui mi sono accompagnato e tutt’ora mi accompagno per queste vie, un giorno mi propose una sua piccola teoria: al carcere resta impigliato chi ce l’ha da qualche parte in un imprinting. Così sarebbe per lui, figlio di un medico di un’antica colonia penale militare; così, forse, per me, figlio di un ragazzo rimasto orfano di padre in Eritrea, durante la seconda guerra mondiale, che – per contribuire a mantenere la famiglia – a sedici anni andò a fare la guardia penitenziaria nel carcere dell’Asmara. Chissà? Forse ci saranno anche questi tratti biografici, come ricorda Sandra dei suoi …

Ma poi ci sono le scelte, i valori, e qualcosa fatto per sé, come giustamente scrive Francesca. E nella storia di un’ “anima bella”, o di un “buonista”, come i “cattivisti” amano deriderci, c’è anche un’idea di giustizia, che dà senso alla propria esperienza di vita. O almeno così è stato per me: l’impegno per il carcere e per i detenuti è stata la naturale prosecuzione di un impegno politico giovanile, di un’idea di giustizia sociale. Quello che vedevo e vedo ancora in carcere non è il bene e il male, o almeno non solo il bene e il male, che qualcuno ha pur commesso, in carcere come fuori, ma l’effetto delle diseguaglianze che dividono le nostre società, generando violenza e abbandono, criminali e reietti.

L’idea universalista dei diritti fondamentali, portata fin dentro le carceri, a beneficio di quelli che fuori abbiamo etichettato come brutti, sporchi e cattivi (e che talvolta, effettivamente, lo sono stati) è per me il modo di criticare l’ingiustizia sociale che produce tanto il crimine quanto il carcere. E qui l’anima bella si fa don Chichotte di fronte ai mulini a vento: ma come mi viene in mente di combattere l’ingiustizia sociale a partire dal carcere? E in effetti il tasso di frustrazione che genera l’impegno per i diritti e la giustizia sociale a partire dal carcere è incredibilmente alto, tanto da poter apparire una perdita della ragione, e qualcuno (tutt’altro che scettico, ma seriamente motivato a seguire una strada simile alla mia) una volta me l’ha chiesto: ma chi te lo fa fare, se il carcere non cambia mai e ogni volta bisogna ricominciare daccapo? Due risposte mi sono e gli ho dato, così su due piedi, nel frangente di una conversazione in pubblico.

La prima, la più banale, dice che a ognuno di noi tocca la nostra parte nella trasmissione di un sapere, di una memoria, di un modo di vedere le cose e se quest’ergastolo dei diritti è servito a motivare altri a proseguire dopo di me, è stata una condanna ben spesa. La seconda, quella più importante, è la compensazione che una sola conquista, per una sola persona, riesce a fare di tutto quel cumulo di frustrazioni di cui è pieno il nostro impegno: perché poi, alla fine, ci sono le persone in carne e ossa, quelle che sono lì, che soffrono con noi e di fronte a noi, a cui non gli si può raccontare del migliore dei mondi possibili senza rispondergli qui e ora ai loro bisogni di giustizia.

E quando uno su mille ce la fa, ecco allora chi ce lo ha fatto fare.