Un’altra terribile notizia che non avremmo voluto avere da un istituto penitenziario: la violenza sessuale di cui è stata vittima una persona detenuta nel carcere romano di Regina Coeli ad opera di due suoi compagni di stanza. Una persona – come ha sottolineato il Garante nazionale dei detenuti – che peraltro non avrebbe dovuto essere lì, essendo prossimo alla fine della pena per reati non ostativi e che quindi avrebbe potuto essere in misura alternativa alla detenzione. Se le alternative alla detenzione non si possono avere neanche a tre mesi dal fine pena, allora diciamolo che c’è anche qui un doppio binario, tra quelli che in alternativa ci vanno dalla libertà e quelli che in galera ci devono stare fino all’ultimo giorno, mostrando platealmente il fallimento dell’ideale rieducativo in quella pena scontata fino all’ultimo giorno in carcere.
Il sindacato autonomo della polizia penitenziaria mette ancora una volta sotto accusa il sistema di vigilanza dinamica con le sezioni a stanze aperte vigente a Regina Coeli, e la carenza del personale. A parte che, se è vero che gli aggressori erano compagni di stanza dell’aggredito, la chiusura in stanza dei detenuti sarebbe stato ancora peggio per la vittima, se il problema fosse quello reale della carenza del personale sarebbe come a dire che la violenza è colpa del sovraffollamento, problema anch’esso reale, ma che nulla c’entra con il fatto commesso e la violenza perpetrata.
In realtà il grave fatto di ieri apre uno squarcio su un aspetto del mondo della detenzione troppo spesso rimosso: la convivenza coatta di decine di persone private (tra le altre cose) di una sessualità libera e consapevole. Certo la possibilità di avere una vita sessuale libera, attraverso incontri riservati con il/la propria/o partner, non avrebbe cambiato la cultura predatoria della sessualità che le due persone denunciate probabilmente hanno, come quella che tanti di noi, maschi italiani, mostriamo ogni giorno fuori dal carcere, in abusi, violenze e relazioni affettive tossiche che arrivano fino a quell’impressionante numero di femminicidi da anni registrati nel nostro Paese (mentre diminuiscono a livelli mai raggiunti prima gli omicidi per altre cause). La cultura predatoria della sessualità non si cancella né con una legge repressiva fuori, né con una legge permissiva dentro il carcere, ma se la sessualità in carcere uscisse dal cono d’ombra in cui è nascosta e repressa, sarebbe più facile prevenire ed evitare la sessualità coatta e violenta dentro le comunità dei ristretti.
E’ tema antico, ormai, quello della sessualità in carcere, affrontato e risolto in molti Paesi europei, ma che qui da noi resta soggetto a un tabù perbenista. Dopo una norma di regolamento cassata per motivi formali vent’anni fa dal Consiglio di Stato, una sentenza della Corte costituzionale e le proposte degli Stati generali dell’esecuzione penale, se ne discute in Senato, su iniziativa del Consiglio regionale della Toscana, cui si è aggiunta un’analoga proposta di quello del Lazio. Perché non dargli seguito in quest’ultimo scampolo di legislatura?
(articolo pubblicato su Il Riformista di giovedì 21 aprile 2022, con il titolo “Detenuto stuprato, come si può prevenire la violenza in cella”)