Abbiamo intervistato Stefano Anastasìa, filosofo e sociologo del diritto, fondatore e già presidente dell’associazione Antigone e di recente riconfermato come Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio.
Per cominciare. Lei ha seguito in prima persona, come Garante delle persone private della libertà personale di Lazio e Umbria, le condizioni dei detenuti durante la tempesta del Covid-19. L’emergenza Covid nelle carceri è rientrata? Qual è, dopo quasi due anni di pandemia, il bilancio della gestione da parte dello Stato del sistema penitenziario in questa delicata fase? Cosa non si è fatto che si sarebbe dovuto fare e cosa, invece, si è fatto di buono?
Per fortuna (e per impegno del personale sanitario e penitenziario) siamo in una fase positiva, di contenimento dei contagi e dei rischi, in carcere come sul resto del territorio nazionale, anche grazie alla sollecitudine e alla responsabilità con cui la gran parte dei detenuti ha accettato l’offerta vaccinale. Stanno riprendendo così le attività e gradualmente il carcere sta tornando alla normalità. Ciò detto la gestione della pandemia in carcere non è sempre stata encomiabile e soprattutto nella prima fase si sarebbe potuto fare di più e meglio. Penso in particolare alle scellerate modalità con cui sono state improvvisamente interrotte le relazioni con i familiari ai primi di marzo dello scorso anno, suscitando comprensibili proteste dei detenuti, purtroppo sfociate in danneggiamenti e ben tredici morti. Penso al lungo silenzio sulla priorità vaccinale per le comunità penitenziarie, riconosciuta solo dopo mesi di nostre richieste.
Penso ai minimi provvedimenti per ridurre la popolazione detenuta, che non sono serviti quasi a nulla: la gran parte della riduzione effettiva della popolazione detenuta è stata dovuta, infatti, ai minori ingressi, alle revoche delle custodie cautelari inessenziali e al ricorso agli ordinari strumenti di alternativa al carcere. Sarebbe stato necessario un immediato provvedimento di amnistia-indulto, anche di un solo anno, per alleggerire la pressione sulle carceri e prevenire l’insorgenza di focolai negli istituti. Così come oggi sarebbe necessario un ristoro anche per i detenuti, una minima misura di giustizia dopo quello che hanno sofferto in questi due anni: basterebbe un giorno di liberazione anticipata speciale per ogni giorno di detenzione scontato in regime di emergenza Covid per riconoscere a chi è stato detenuto in questo periodo di aver scontato una pena di fatto più dura della detenzione ordinaria. D’altro canto, la pandemia ha rotto il tabù delle tecnologie dell’informazione e il carcere è entrato nell’era digitale, con le videochiamate e le videolezioni. Ora bisognerà vigilare perché da qui non si torni indietro.
È stata di recente approvata la riforma del processo penale. Una riforma che, pur tra luci e ombre, rappresenta comunque il superamento dell’era Bonafede. Come giudica finora l’operato della ministra Cartabia? Tra l’altro, è da poco stata istituita la “Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario”? E’ fiducioso? Cosa si aspetta dall’esecutivo in materia penitenziaria?
La ministra Cartabia ha imposto una positiva soluzione di continuità nell’azione di governo in materia di giustizia, e di giustizia penale in particolare. Ovviamente la sua azione non può non essere condizionata dalla composita maggioranza che sostiene il governo, tra cui figura più di una forza politica che ha fatto dell’uso populista del diritto e della giustizia penale il principale veicolo del proprio consenso elettorale. Ciò nonostante, sono fiducioso che soprattutto in via amministrativa sia possibile fare molto e credo che la commissione autorevolmente presieduta dal prof. Ruotolo possa far tanto in questa direzione.
Rimanendo sul tema. Cosa pensa della proposta del Prof. Giovanni Fiandaca di istituire la figura di un vice-ministro con la delega sul tema carcerario? La convince?
Ne avevamo discusso, con il collega e amico Giovanni Fiandaca, ancor prima che avanzasse per la prima volta la sua proposta, dalle colonne del Foglio, nei giorni in cui si andava costituendo il governo Draghi: il penitenziario e, in generale, l’esecuzione penale, hanno una complessità tale da aver bisogno di un indirizzo politico costantemente presente. Da qui nasce l’idea di un viceministro per le carceri. Non semplicemente un sottosegretario, ma proprio un viceministro, con delega e capacità di interlocuzione diretta con la Presidenza del Consiglio e con il Consiglio dei ministri. E’ questa l’unica condizione perché l’esecuzione penale sia effettivamente governata e non lasciata alla fondamentale, ma insufficiente direzione amministrativa dei vertici dipartimentali. Un ministro, anche la migliore ministra che abbiamo, non può fare la politica penitenziaria, costretta com’è dalle urgenze della più generale politica della giustizia, e un sottosegretario senza i poteri di un viceministro sarebbe costantemente scavalcato dalla naturale tendenza dei vertici amministrativi a riferirsi al ministro. Insomma, sì, sono d’accordo con Fiandaca, e non solo per questa straordinaria contingenza, ma come ordinario assetto istituzionale del ministero della Giustizia.
L’associazione Antigone è una delle realtà che ha promosso il referendum sulla legalizzazione della Cannabis. La legalizzazione delle sostanze inciderebbe davvero così tanto sul sovraffollamento carcerario?
Più di un quarto della popolazione detenuta è formalmente legata alla circolazione illegale di sostanze stupefacenti e molti altri sono in carcere per la commissione di reati strumentali all’acquisizione di droghe illegali. Quindi sono certo che una sana e seria politica di legalizzazione di tutte le sostanze stupefacenti, a partire dalla cannabis, aiuterebbe a superare quell’idea di carcere come contenitore della irregolarità e della marginalità sociale che si è andata affermando negli ultimi trent’anni. Ciò detto sono consapevole che la legalizzazione da sola non basta, se mancano politiche di integrazione sociale sul territorio che prevengano devianza e domanda di controllo sociale istituzionale. In assenza di politiche di questo genere, ci vuol poco a sostituire la legge sulla droga con altri strumenti repressivi, per togliere dalla strada e tenere sotto chiave i soliti noti che vivono per strada e disturbano la quiete pubblica.
Sono passati alcuni mesi dalla diffusione dei video di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta di un caso isolato o eventi del genere sono più diffusi di quanto non si possa pensare? Al di là della singola vicenda giudiziaria, come si può intervenire a livello sistemico per evitare che simili episodi si ripetano?
La cosa più impressionante di quelle immagini è una certa metodicità negli abusi (si pensi, p. es., alle due fila di poliziotti che bastonano i detenuti che attraversano il corridoio), che testimonia di un uso più frequente di quanto si sappia (ricordo che proprio quelle due fila di poliziotti furono documentate a Sassari nel 2000), e poi l’idea dell’impunità che traspare da quelle azioni svolte sotto telecamere a tutti note. Questi sono indici di una canteen culture che sopravvive nel corpo a dispetto delle migliori intenzioni dei suoi dirigenti e dei vertici amministrativi. Eradicare quella cultura di sottobosco, che ancora contrappone i poliziotti ai detenuti, di fatto equiparando gli uni agli altri come due fazioni in lotta tra loro, è la sfida più difficile per i vertici dell’Amministrazione penitenziaria e per gli stessi dirigenti e operatori di polizia che vengono da altra cultura e formazione. Su questo dobbiamo essere tutti impegnati, sia nella formazione che nelle prassi, affinché il corpo della polizia penitenziaria possa vantarsi a pieno titolo di essere un corpo di operatori pubblici che garantiscono la piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità alla finalità rieducativa della pena.
A proposito, come giudica la scelta del Dap di riprendere l’iniziativa di introdurre le body cam e di riparare i sistemi di video sorveglianza entro il 2024?
Vanno bene tutte le iniziative che diano trasparenza alle operazioni di polizia all’interno delle carceri. Aggiungerei la necessità di sistemi di identificazione individuale dei poliziotti in servizio, in modo particolare durante le operazioni più delicate, come peraltro raccomandato dal Garante nazionale e dagli organismi internazionali di tutela dei diritti umani.
A dieci anni di distanza da “Contro l’ergastolo”, di cui lei è autore insieme a Franco Corleone e Andrea Pugiotto, è stato pubblicato “Contro gli ergastoli”. Cos’è cambiato negli ultimi dieci anni? Il Parlamento interverrà, dopo l’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale, o accadrà quanto già successo sul tema del “fine vita”?
Negli ultimi dieci anni è cambiato tanto, tantissimo. Il fenomeno dell’ergastolo ostativo è diventato sempre più grave, innanzitutto per dimensioni, ma nel contempo la Corte europea dei diritti umani e la Corte costituzionale hanno detto cose importanti da cui non si può tornare indietro. E non lo può fare neanche il parlamento con la legislazione ordinaria. Dunque, o le camere riescono a trovare soluzioni normative che rispettino il principio affermato dalla Costituzione con l’ordinanza 97/2021, oppure è meglio lasciare scorrere il tempo e far dire l’ultima parola alla Corte, che non potrà che essere di censura dell’ergastolo ostativo.
(Intervista di Federica Chirico pubblicata il 25 ottobre 2021 nel sito dell’associazione Extrema Ratio con il titolo “Carcere: intervista a tutto campo a Stefano Anastasìa”)