Come se non bastassero le tragiche morti di Hassan e di una trans appena entrata nel carcere di Udine, sabato sera arriva la notizia del terzo suicidio della settimana, questa volta a Genova: ancora una volta un giovane immigrato, senza relazioni familiari sul territorio, arrestato per detenzione di sostanza stupefacenti di lieve entità, lo stesso reato per cui Hassan era stato condannato a quattro mesi di carcere dal Tribunale di minori di Roma (e non doveva più stare in un carcere per adulti).
Diffondendo la notizia di questo nuovo episodio di suicidio, il trentunesimo in carcere dall’inizio dell’anno, giustamente il Garante nazionale delle persone private della libertà richiama l’attenzione della società civile e delle istituzioni locali e nazionali sulle condizioni di vita dentro e fuori le carceri, e su quanto potrebbe essere fatto per garantire loro una speranza di vita migliore prima ancora che vengano arrestati. E’ il vecchio tema sollevato tanti anni fa dal migliore dei magistrati di sorveglianza e dei capi dell’amministrazione penitenziaria che questo Paese abbia avuto, il caro Sandro Margara, che denunciava la natura del carcere come discarica sociale e che proprio per questo elaborò una proposta di riforma dell’ordinamento penitenziario volta a liberare la marginalità sociale dal carcere.
Purtroppo quelle proposte sono rimaste lettera morta. Così come sono destinate a restare lettera morta le proposte elaborate nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale e della Commissione ministeriale di attuazione della delega alla riforma penitenziaria. Sulla base di nuovi e oscuri calcoli temporali, che – di fatto – hanno prorogato la vigenza della delega fino a ottobre, giovedì scorso il Consiglio dei ministri ha approvato una terza versione dello schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario. Sulla base della confusione tra certezza della pena e certezza del carcere, sono stati cancellati dalla proposta del Governo tutti i riferimenti alle alternative al carcere. Il rifiuto ideologico delle alternative al carcere arriva fino al punto che nel nuovo schema di decreto sono state cancellate finanche la sospensione della pena per gravi motivi di salute psichica (cosa su cui è chiamata a pronunciarsi a breve la Corte costituzionale, che non potrà che parificare la malattia mentale alle patologie fisiche) e l’alternativa terapeutica per i malati di mente. Intanto, al 31 luglio, i detenuti sono arrivati a 58.506, 1.740 in più dell’anno precedente e Antigone ci ha puntualmente informato dei problemi e delle inefficienze di un sistema penitenziario perennemente sovraffollato. Ne abbiamo parlato, venerdì scorso, in un incontro molto cordiale che – in rappresentanza della rinnovata Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà – abbiamo avuto con il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini.
Dal contratto tra Lega e M5S e dagli interventi pubblici del Ministro Bonafede sappiamo qual è l’indirizzo di Governo: la pena non può che essere detentiva (l’unica pena certa è detentiva); poi, lì in carcere, potranno essere promosse attività lavorative per il futuro reinserimento sociale dei condannati; i migliori tra i migliori (quelli che non abbiano reati ostativi, che non si comportino male, che abbiano risorse familiari e sociali significative e la fortuna di trovarsi in un istituto e in un territorio che offrano opportunità di lavoro e di reinserimento sociale) magari riusciranno a finire la loro pena fuori dal carcere. Si tratta di ricette antiche, secondo cui la pena detentiva è di per sé rieducativa e le alternative sono benefici straordinari. Ricette che hanno dimostrato nel tempo la loro inefficacia sotto i due profili costituzionalmente rilevanti del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e della prospettiva di reinserimento sociale dei condannati.
Sul primo versante, non dobbiamo mai dimenticare che la privazione della libertà è una condizione innaturale e sempre a rischio di trattamenti contrari al senso di umanità. Proprio quando constatiamo la progressione dei suicidi in carcere, non dobbiamo dimenticare che la loro frequenza è di circa diciassette volte superiore a quella riscontrata nella società libera. Dunque, la prima misura di prevenzione del rischio suicidario è quello di non abusare del carcere, sia in attesa del processo che dopo la condanna, e riservarlo esclusivamente ai reati più gravi (non certo alla detenzione di lieve entità di sostanze stupefacenti, per esempio).
Quanto al reinserimento dei detenuti, va da sé che un’attività di istruzione, formazione e inserimento lavorativo in carcere sia auspicabile, ma deve essere offerta a tutti i condannati e deve avere, appunto, la prospettiva di proseguire anche fuori, e il modo migliore perché la abbia è che possa svilupparsi in una alternativa al carcere già durante l’esecuzione penale, quando gli operatori della giustizia, degli enti locali, del mondo del lavoro e del terzo settore possono cooperare nel sostegno al reinserimento sociale di chi venga da una storia complicata, detentiva e non.
Questo – l’abbiamo detto mille volte, ma non ci stancheremo di ripeterlo – è il modo migliore per produrre sicurezza nell’esecuzione di misure penali: non chiudere dietro le mura di una prigione o le sbarre di una cella, ma seguire e accompagnare in un diverso progetto di vita, riconoscendo la distinzione tra la persona e il fatto per cui è stato condannato. Questa, in fondo, è la distinzione che Papa Francesco ha proposto alla Chiesa cattolica nella revisione del Catechismo sulla pena di morte: anche nel peggiore dei casi, la persona non è il suo reato, e dunque le va riconosciuta un’altra possibilità.