Ventisette suicidi nelle carceri italiane, tre suicidi di agenti della polizia penitenziaria, una situazione di sovraffollamento impressionante: numeri che ci ricordano la famosa sentenza Torregiani, la condanna da parte della Cedu all’Italia per trattamenti inumani e degradanti. Con queste premesse, Lorena D’Urso, caposervizio di Radio Radicale, ha aperto il dibattito sulla situazione nelle carceri italiane, che si è svolto mercoledì 27 marzo, a partire dalla presentazione del libro di Stefano Anastasìa “Le Pene e il Carcere”, su iniziativa del Commissario straordinario della Asl Roma 1, Giuseppe Quintavalle, nel Salone del Commendatore nel Complesso monumentale Santo Spirito in Sassia.
Oltre all’autore e al Commissario Quintavalle, hanno partecipato il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, e il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Roma Marco Patarnello.
“Il saggio di Anastasìa”, ha spiegato D’Urso, “è una guida per capire il contesto non solo penale ma anche politico che ha portato a questa situazione, nella quale chi legge troverà innanzitutto una definizione – scrive l’autore – forse approssimativa ma certamente realistica e non convenzionale di cosa sia la pena e di quali possano essere le sue concrete articolazioni”.
Quintavalle: più sanità all’interno degli istituti penitenziari
Nel corso del suo intervento, il Commissario straordinario Quintavalle ha ricordato che l’obiettivo che la riforma della sanità penitenziaria si poneva era quello di equiparare il servizio sanitario carcerario al servizio sanitario di tutti, con diritti e doveri in egual misura. In tale contesto, Quintavalle ha evidenziato l’importanza di avere un servizio psichiatrico che opera all’interno e dei dipartimenti di salute mentale che cooperano dall’esterno in una logica di rete e di sinergia.
Le difficoltà operative nella sanità penitenziaria non mancano, ma il Commissario straordinario della Asl Roma 1 ha ricordato anche le migliorie in fase di attuazione, prima fra tutte il recupero della piena funzionalità dell’ex-centro clinico di Regina Coeli, “proprio a testimoniare che Regina Coeli ha una valenza strategica nell’articolazione della rete regionale, essendo un Sai (Servizio assistenza integrata), quindi un servizio di riferimento con settantotto posti letto.
“Abbiamo provveduto a mettere in funzione il blocco operatorio – ha detto Quintavalle – e molto presto inizieremo a fare all’interno di quella struttura quello che si deve fare, ovvero portare il più possibile la sanità all’interno, per cercare di far uscire il meno possibile le persone, perché comprendiamo il problema delle carenze di personale, non solo nella sanità, ma anche tra gli agenti che, di per sé, possono essere pochi a svolgere ruoli di accompagnamento”.
Patarnello: perché il Tribunale di sorveglianza così non va
Il Magistrato Marco Patarnello ha parlato delle ragioni del mancato funzionamento del Tribunale di sorveglianza, in particolare a Roma. “Tutto questo deriva certamente dall’insufficienza degli organici”, ha detto Patarnello, “ma il collo di bottiglia, a mio modo di vedere dopo sette anni di questa esperienza straordinaria, non lo identifico soltanto nella quantità dei magistrati che sono previsti in organico, ma la sofferenza maggiore a me sembra proprio nella macchina amministrativa nel suo complesso, cioè nella carenza di risorse logistiche e soprattutto di ingegnerizzazione e informatica: è qui che si nasconde la gran parte delle problematiche del funzionamento del Tribunale di sorveglianza di Roma”.
Russo: un laboratorio tecnologico per lavorare a Regina Coeli
Nel suo intervento, il Capo del Dap, Giovanni Russo, ha evocato la creazione di centonovantuno poli di eccellenza lavorativa, vale a dire un polo in ciascun penitenziario italiano, a partire da Regina Coeli, “l’istituto considerato meno gestibile da questo punto di vista, troppo inserito in un contesto urbano preso di mira da speculazioni di vario tipo”.
Russo ha annunciato “un’iniziativa veramente grandiosa di una delle più grandi imprese europee di tecnologia che verrà a installare lì un laboratorio, il più moderno di Europa”.
“Venti detenuti ogni tre mesi si daranno il cambio – ha spiegato Russo – e io mi aspetto che i detenuti chiedano di venire da tutt’Italia, così chi avrà l’attitudine per diventare giuntista della fibra ottica (abbiamo una richiesta di ottomila giuntisti da Open Fiber dalla Presidenza del Consiglio) potrà chiedere di scontare la sua pena senza sprecare il proprio tempo, cercando di cogliere quell’ occasione che lo Stato gli offre e che non gli è stata offerta in precedenza.”
Anastasìa: il problema ha a che fare con la natura e la qualità delle nostre democrazie
“Il mio libro è un libro che non dà soluzioni ai problemi del sistema penitenziario”, ha concluso l’autore del volume “Le Pene e il Carcere”, al termine del dibattito. “Uno dei motivi per cui non dà soluzioni”, ha aggiunto Anastasìa, “è perché il sistema penitenziario ha vissuto di proposte di riforma non realizzate che non hanno fatto altro che aumentare il livello di frustrazione di chi poi ci deve stare, ci deve vivere, ci deve lavorare”.
“Io credo che noi”, ha proseguito Anastasìa, “ci dobbiamo interrogare sulla domanda di punizione che c’è dentro la nostra società, che finisce per rimotivare l’idea di una pena intesa come qualcosa che deve produrre una sofferenza, che deve fare stare le persone peggio di come stavano fuori”.
Per Anastasìa, “si chiede al carcere di rappresentare in forma moderna il rituale sacrificale, che attraverso la chiusura di qualcuno da qualche parte sanifica la società. Noi sappiamo perfettamente che così non è, ma questo bisogna essere capaci di comunicarlo e per comunicarlo bisogna rendere partecipi quelli che chiedono il carcere come luogo sacrificale, bisogna renderli partecipi di un’altra idea delle relazioni sociali, di una politica che si faccia carico dei bisogni delle persone che hanno maggiori difficoltà. Questa è la grande sfida e non è una sfida a cui si può dare una risposta oggi per domani”.
“Il problema”, ha concluso Anastasìa, “ha a che fare con la natura e la qualità delle nostre democrazie, e in che misura sono capaci di rispondere a domande sociali non usando la scorciatoia della pena, del linguaggio sacrificale che, se si continua ad alimentare, finirà sempre per lavorare contro lo sforzo che tutti noi facciamo ogni giorno perché invece la pena sia dignitosa e le persone possano godere dei loro diritti”.