ROMA – Messina Denaro andrà in carcere: le sue condizioni di salute sono ritenute “compatibili” con la detenzione. C’è un filo doppio, che lega malattia e carcere, nella vicenda che ha condotto all’arresto del boss mafioso: la piste nelle cartelle cliniche, l’arresto in una struttura sanitaria e ora il dubbio: può un uomo con un tumore avanzato e una terapia chemioterapica in corso essere detenuto in un carcere di massima sicurezza? Lo chiediamo a Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti per la regione Lazio, che proprio domani presenterà il suo ultimo libro, “Le pene e il carcere”, che mette al centro propri la questione dei diritti, tra cui quello alla salute.
Dottor Anastasia, in che modo viene garantito il diritto alla salute in carcere e quali sono le principali sfide?
“A partire dal 2008, l’assistenza sanitaria in ambito penitenziario è passata sotto la competenza del Servizio sanitario nazionale – ricorda Anastasia a Redattore Sociale – con le conseguenti fortune e sventure: tra queste ultime, la scarsezza delle risorse, la difformità dei trattamenti. Il principio generale, però, è che l’assistenza sanitaria in carcere sia equivalente a quella esterna: un principio sacrosanto, che bisogna perseguire. Oggi la sfida più importante per la sanità penitenziaria, così come per la medicina territoriale, è il potenziamento degli strumenti della telemedicina, come richiesto pure dal Pnrr al Sistema sanitario nazionale: ovvero, contribuire con le nuove tecnologie all’assistenza sanitaria dei detenuti. In generale, sappiamo che il carcere è un’istituzione patogena, a prescindere da eventuali problematiche sanitarie, per via della reclusione, della ristrettezza degli ambienti di vita, dell’impossibilità di svolgere attività motoria significativa. Il problema della tutela della salute delle persone detenute è un problema congenito.
E per i detenuti con problemi di salute, cosa è previsto?
Il nostro ordinamento prevede la sospensione della detenzione, per lo più con ricorso agli arresti domiciliari, presso l’abitazione o presso il luogo di cura, dal momento che il diritto alla salute prevale anche rispetto alle cosiddette necessità di sicurezza, perché la tutela della salute come diritto fondamentale della persona viene prima della tutela dell’esecuzione della pena in senso proprio. Questo riguarda tutti, in particolare i detenuti anziani con gravi patologie, tra cui Messina Denaro, il quale ha un tumore in stato avanzato. Il fatto di avere una patologia così importante non comporta necessariamente la sospensione della pena per motivi di salute: sospensione che avviene solo quando l’assistenza necessaria non possa più essere prestata in carcere. Se Messina ha bisogno di controlli, cicli periodici di chemio che si possono fare attraverso il trasferimento dal carcere al luogo di cura, questo può garantire la continuità dell’esecuzione della pena. Poi certo, la continuità delle cure deve essere garantita e in questo caso potrebbe risultare particolarmente complessa: quanto sarà complicato per l’istituto penitenziario, per esempio, se dovrà provvedere al trasferimento periodico all’esterno di una persona che dovrà avere un alto livello di protezione e di sicurezza?”
Il diritto alla salute in carcere è solo uno dei temi che approfondisce nel suo libro, “Le pene e il carcere”. Quali sono le altre urgenze?
Il libro ricostruisce la storia del sistema penitenziario italiano negli ultimi 30 anni, evidenziando le cause della sua crisi perenne, dovuta alla costante domanda di incarcerazione, per cui il sistema è sempre in sofferenza. In questa crisi, conta molto il tema dei diritti della persona: progressivamente, la giurisprudenza costituzionale ed europea ha scoperto la rilevanza dei diritti non comprimibili della persona, con cui l’esecuzione penale deve fare i conti. E’ il filone di quella che chiamo “giurisprudenza umanitaria”, la quale si basa sull’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Questo ha a che fare certamente con il tema della salute, cui infatti è dedicato un capitolo intero del libro, ma rientrano anche altre questioni, come il diritto alle relazioni e alla sessualità. Tutto questo mette quanto meno in discussione l’idea che la pena detentiva sia e debba essere la soluzione principiale nel nostro ordinamento.
L’alto numero di suicidi, come pure le recenti proteste nelle carceri minorili, hanno a che fare con la mancata tutela dei diritti?
Io credo che suicidi e rivolte siano in relazione soprattutto con la prospettiva delle persone detenute, ovvero la loro capacità di immaginare il proprio futuro oltre la detenzione stessa. E’ un problema particolarmente rilevante all’indomani della pandemia, che ha prodotto molti problemi nel sistema penitenziario di organizzazione dell’offerta per il reinserimento. L’isolamento infatti si è aggravato in carcere, dove pure l’isolamento è congenito: le associazioni, le attività, i progetti, i volontari sono usciti e ancora faticano a rientrare. E poi c’è anche un altro aspetto: durante la pandemia, i detenuti si sono sentiti parte dello sforzo che la comunità stava facendo per superare quel momento. Successivamente, ha quindi pesato molto ritrovati nelle stesse condizioni di prima e vedere che il mondo fuori riprendeva la sua strada, mentre quello dentro restava isolato. Se mi domandassero perché proprio nel 2022 si sia verificato quel record di suicidi, ipotizzerei che dipenda dalla condizione di disperazione prodotta dallo stato di abbandono delle carceri e dalla difficoltà di tornare a una normalità e percepire una speranza.
Da dove si può partire, ora, per cercare di ridurre queste criticità?
La sfida principale è quella di ridurre il sistema penitenziario a quello che effettivamente può e deve essere gestito dal carcere. Occorre salvaguardare e mettere in pratica le indicazioni contenute nella riforma Cartabbia a favore delle sanzioni sostitutive per le pene brevi, così che in carcere vada solo chi ha commesso reati importanti contro la persona, o legate a organizzazioni criminali. In carcere deve andare chi una pena medio-lunga, perché stare in carcere sei mesi, o anche due anni, è solo una perdita di tempo e soprattutto non offre nulla, se non l’aggravamento di isolamento e devianza. Se i numeri fossero drasticamente ridotti e il carcere potesse occuparsi di chi ha pene importanti, con risorse di cui dispone potrebbe offrire finalmente una piena garanzia dei diritti e un’offerta trattamentale adeguata per il reinserimento sociale.
*Intervista pubblicata nel Redattore sociale del 17/1/2023: Messina Denaro, il tumore, il carcere: una misura “compatibile”? Intervista ad Anastasia – Redattore Sociale