329 detenuti positivi su 5548 sono tanti, più di quanti ce ne siano mai stati nelle carceri del Lazio in questi due anni di pandemia. La importante, diffusa e continuata campagna vaccinale offerta ai detenuti fa sì che la grandissima parte non siano sintomatici, ma resta una criticità importante, soprattutto laddove – come a Regina Coeli – arrivino a coinvolgere quasi un quarto degli ospiti (219 su 890 detenuti). La conseguente chiusura di Regina Coeli agli arresti ha di fatto bloccato l’intero sistema, con effetti anche sui commissariati e le caserme dei Carabinieri, costretti a ospitare per giorni gli arrestati in ambienti inidonei, come ho potuto constatare personalmente nel Commissariato di San Paolo, a Roma.
La Direzione regionale della Sanità ha assicurato la massima disponibilità all’Amministrazione penitenziaria nella valutazione di ulteriori misure di sorveglianza sanitaria che rendano più flessibile il sistema, ma che siano compatibili con il principale interesse della tutela della salute dei detenuti. Ciò detto, la palla torna alla giustizia e alla stretta necessità dell’adozione di misure cautelari in carcere o della esecuzione delle pene in forma detentiva. In carcere continuiamo a incontrare persone anziane che restano o vi fanno ingresso per pochi mesi, detenuti con lunghe pene e ottimi percorsi detentivi che non riescono a uscirne, e corriamo pure il rischio che i semiliberi in licenza straordinaria da quasi due anni siano costretti a tornare a dormire in carcere al termine dello stato di emergenza, in spregio a ogni principio di ragionevolezza e di progressività del trattamento penitenziario.
In attesa di un ristoro che riconosca ai detenuti la maggior sofferenza patita in questi anni (un giorno di liberazione anticipata speciale per ogni giorno di detenzione in pandemia, abbiamo proposto come Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà), è ancora tempo di misure ordinarie o straordinarie per ridurre la popolazione detenuta, come il legislatore non seppe fare all’inizio della pandemia, bilanciato però (almeno allora) dagli operatori della giustizia e della sicurezza, che limitarono al minimo gli ingressi in carcere e ne facilitarono al massimo le uscite.
Se non si riducono i numeri del carcere, non si potranno attuare neanche le misure di innovazione del sistema penitenziario prospettate dalla commissione ministeriale presieduta dal professor Ruotolo. Dentro la pandemia e dopo la pandemia, la questione è sempre questa: crediamo veramente al carcere come extrema ratio o lo consideriamo l’ultima riserva di un welfare in disarmo, destinato a custodire la marginalità sociale che non trova più spazio e accoglienza nelle nostre città e nei nostri quartieri?