Prefazione del libro di Settimio Monetini, “I servizi psicologici per i detenuti e per gli internati”, Morlacchi editori.
Ha l’aspetto di un trattato, questo libro di Settimio Monetini. Vi si esaminano dettagliatamente tutti i punti di intersezione tra le scienze psicologiche e la privazione della libertà per motivi di giustizia, e come questi nel tempo si siano trasformati, o avrebbero dovuto trasformarsi, in servizi di assistenza alle persone detenute o di supporto all’azione amministrativa. Si siano o avrebbero dovuto trasformarsi: in questa alternativa già si affaccia l’animus dell’Autore, che non è proprio quello di un trattatista. Sia chiaro, non per la competenza e la certosina ricostruzione delle situazioni giuridiche cui fa riferimento, di cui Monetini è maestro, ma per la storia professionale e la motivazione che lo hanno spinto a scrivere questo testo così importante.
Ho avuto la fortuna di conoscere Monetini nell’esercizio delle sue funzioni professionali, come dirigente dell’area trattamentale del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per l’Umbria: un dirigente-studioso, che dall’approfondimento – del dato normativo così come della realtà effettuale – traeva risposte non scontate ai bisogni del sistema e delle persone detenute. Allora come oggi l’acribia di Settimio Monetini nasce dalla motivazione civile, di un funzionario pubblico prima, di un citoyen a tutto tondo oggi, che crede nella Costituzione e nei suoi presupposti, e quindi nel dovere di ciascuno, dei funzionari pubblici come di ogni cittadino, di fare tutto quello che è possibile per riempire il solco che separa le prescrizioni costituzionali dalla realtà dei fatti.
E di là parte la ricostruzione sistematica che Monetini fa dei servizi psicologici nel sistema penitenziario, da quei due principi costituzionali del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e dello scopo rieducativo che le pene devono avere. Al contrario di una tradizione penalistica che, accucciata dietro le teorie polifunzionali della pena, confonde l’uno e l’altro sotto la bandiera di una rieducazione che vuol dir tutto e non vuol dir niente, giustamente Monetini li distingue quei principi e li pone a fondamento di diverse funzionalità dell’intervento psicologico in carcere: il principio categorico del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, che motiva l’intervento psicologico preventivo e assistenziale, a tutela tanto della persona detenuta in un ambiente straniante e, letteralmente, mortificante; il principio ottativo della rieducazione, che motiva il sostegno nella difficile opera di adesione e quindi di perseveranza nel percorso di reinserimento della persona condannata in condizioni di autonomia e legalità nel contesto sociale esterno.
Monetini sa bene quanto siano difficili i compiti, nell’una come nell’altra direzione, e quante le inadempienze dell’amministrazione penitenziaria a tener fede alle sue stesse promesse, articolate in un profluvio di normativa secondaria che solo uno del mestiere, e con la giusta motivazione, può riuscire a ricostruire. E sa bene quali i rischi di burn out in un ambiente ad alto tasso di frustrazione professionale, minimamente attenuati tra gli operatori sanitari dalla possibilità di “evadere” verso altri servizi non carcerari. Ciò non toglie che i compiti siano lì, e siano doveri civili e professionali a cui non si può sfuggire, tanto più oggi che la questione del disagio psichico e della salute mentale in carcere sono diventate le più evidenti “emergenze” del sistema penitenziario italiano.
Abbiamo di poco alle spalle l’anno più duro per i suicidi in carcere da quando si tiene conto pubblicamente di questa nefasta contabilità: gli ottantacinque suicidi del 2022, anno di uscita dalla pandemia in cui più palpabilmente le persone detenute hanno potuto tornare a misurare la distanza tra le loro condizioni di vita e le nostre, che finalmente tornavamo a una compiuta libertà di relazioni e di movimento. Il primo trimestre di quest’anno promette addirittura peggio. Nonostante ogni piano di prevenzione, il suicidio – l’antico stratagemma evasivo del Michè di De Andrè (“però adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir”) – è la prima causa di morte in carcere, a costante testimonianza della innaturale condizione della privazione della libertà per gli esseri umani e della fragilità delle persone che vi sono frequentemente destinate.
D’altro canto, da dieci anni a questa parte una tensione costante anima il sistema penitenziario a proposito del trattamento delle persone con seri problemi di salute mentale. Tra gli effetti non adeguatamente meditati della meritoria scelta di chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari c’è stato il rientro in carcere di una significativa quota di sofferenza mentale che il vecchio sistema destinava come la polvere a esser nascosta sotto il tappeto dell’internamento in Opg, residuo approdo – fino ad allora – del modello manicomiale cancellato dalla legge Basaglia.
Con l’invenzione delle nuove residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture non solo esclusivamente sanitarie, ma anche esclusivamente riservate alle persone giudicate non imputabili perché incapaci di intendere e di volere al momento del fatto, in carcere sono rimasti non solo – illegalmente – i destinatari di posto in Rems quando e per quanto non ve ne sia (per fortuna e tradizione civile le strutture socio-sanitarie residenziali non ammettono “sovraffollamento), ma anche le persone con gravi disturbi mentali che non siano stati rilevanti nel fatto giudicato o che siano maturati in condizioni di detenzione.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 99/2019, ha da tempo stabilito che le persone con gravi disturbi mentali, incompatibili con la detenzione, dovrebbero avere accesso alla sospensione della pena sotto forma di detenzione domiciliare per motivi di salute, anche in appropriate strutture residenziali esterne, ma l’ignoranza della giurisprudenza della Corte, la mancanza di adeguata assistenza legale di molti di questi detenuti, le limitate risorse dei servizi di salute mentale in carcere e la carenza di soluzioni terapeutico-residenziali esterne fa sì che gran parte di queste condizioni di incompatibilità con la detenzione restino in carcere, aggravandosi dal punto di vista clinico e alterando le modalità di convivenza con gli altri detenuti e il lavoro degli operatori, soprattutto degli agenti di polizia di prossimità, non adeguatamente formati alla gestione quotidiana di gravi psicopatologie.
Queste nuove o risorgenti emergenze impongono un ripensamento complessivo dei servizi di salute mentale in carcere, che non possono restare fermi alla vecchia pratica delle consulenze psichiatriche, dei colloqui psicologici e della somministrazione della terapia farmacologica, ma dovrebbero aprirsi alla pratica multidisciplinare in cui il colloquio psicologico e l’osservazione clinica fanno parte di un’azione terapeutico-riabilitativa che ha bisogno di tutte le figure professionali sperimentate nei servizi territoriali e in quelli residenziali esterni e che dovrebbe essere orientata, come nelle Rems, alla più rapida presa in carico territoriale.
Nelle sue considerazioni conclusive, Monetini propone una rassegna impietosa della incapacità autoriflessiva dell’Amministrazione penitenziaria sulle sue prassi e sui risultati della sua azione, nel tempo amputata anche di quei pochi strumenti di ricerca di cui si era dotata nei momenti più luminosi della sua storia. Eppure, se il patrimonio di conoscenze teoriche e pratiche di operatori che hanno fatto la storia dell’Amministrazione penitenziaria saprà trasmettersi ai nuovi e ai futuri operatori che li hanno seguiti e li seguiranno, come noi speriamo di contribuire a fare con la pubblicazione di questo libro di Settimio Monetini sui servizi psicologici per i detenuti e gli internati, non tutto sarà perduto e nuove energie potranno contribuire a reindirizzare il sistema penitenziario italiano nel solco della Costituzione e della valorizzazione delle competenze professionali che lo animano.