Poco più di un mese fa il suo solo annuncio aveva fatto scatenare l’iradiddio, invece qualche giorno fa il deposito della sentenza della Corte costituzionale sui permessi premio ai detenuti ostativi è passato quasi sotto silenzio: poche righe redazionali, un paio di interviste a commento. Misteri della politica e della informazione! Eppure il deposito della sentenza e la successiva pubblicazione nella Gazzetta ufficiale ne fa decorrere gli effetti giuridici, e quindi – come nel caso di specie – l’effettiva inapplicabilità della norma dichiarata illegittima. Eppure con il deposito della sentenza si conoscono le argomentazioni della Corte, su cui dovrebbe esercitarsi quello spirito critico di commentatori e addetti ai lavori che in questo caso, invece, si è speso solo sul primo comunicato della Corte costituzionale, quello – appunto – che ne anticipava la decisione. Ma vabbè, evidentemente si preferisce commentare al riparo dalle argomentazioni di merito, quando si può dire la qualunque senza timore di essere smentiti, piuttosto che confrontarsi con le parole della Corte per rilevare potenzialità e limiti di una sua importante decisione.
Dunque, per stare al merito, la Corte costituzionale ha deciso la illegittimità dell’articolo 4bis, comma 1 dell’Ordinamento penitenziario (quello che stabilisce la preclusione all’accesso alle misure alternative alla detenzione e ai benefici penitenziari dei condannati per fatti di criminalità organizzata e per altri gravi delitti) nella misura in cui non prevede che possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia. Come sintetizza ancora una volta l’ottimo ufficio stampa della Corte costituzionale, è giusto “premiare” il detenuto che collabora, inammissibile “punirlo” ulteriormente per la mancata collaborazione.
Come si sa, l’impedimento all’accesso ai benefici, se non sotto la condizione della collaborazione con l’autorità giudiziaria, era disposta sulla base della presunzione di pericolosità sociale del condannato per fatti di criminalità organizzati e per altri gravi reati. La Corte non contesta questa presunzione di pericolosità sociale, «purchè si preveda che … possa essere vinta da prova contraria», insomma: che non si tratti di una presunzione assoluta, ma che si limiti a essere una presunzione relativa. Tutto questo, nel ragionamento della Corte, dipende da tre ordini di argomentazione:
1. La presunzione assoluta è motivata da esigenze investigative e di sicurezza che possono avere “conseguenze afflittive ulteriori”, e per ciò stesso illegittime, sul detenuto non collaborante.
2. Questa assolutezza impedirebbe di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena.
3. Infine, l’assolutezza della presunzione di pericolosità sociale si basa su una generalizzazione le cui contestazioni devono poter essere valutate dal giudice di sorveglianza.
Dunque, come era facile evincere già dall’annuncio della decisione della Corte, nessun “liberi tutti”, come – per ignoranza o per strumentalità – qualcuno ha sostenuto senza neanche leggere il comunicato stampa della Corte del 23 ottobre scorso, ma solo decisioni caso per caso, senza più che la mancata collaborazione renda inammissibile l’istanza del detenuto. Dunque, rimettano in fodera le armi, coloro che hanno minacciato di rispondere alla Corte costituzionale con la proposizione di norme geneticamente incostituzionali.
Piuttosto, dal punto di vista applicativo, meritano qualche approfondimento due aspetti della decisione della Corte: da una parte se veramente essa possa essere limitata ai permessi premio o se non possa riguardare, in futuro, anche altri benefici e misure alternative, e – specificamente – la liberazione condizionale per gli ergastolani; dall’altra a quali parametri dovrà attenersi il giudice per la concessione dei permessi premio (e, in futuro, le altre misure attualmente precluse dal 4bis). Sul primo punto, mi limito ad affiancare il mio amico Davide Galliani che, in un’affollata assemblea svoltasi a Bologna tre giorni fa, si è detto disponibile ad accettare scommesse sul fatto che la presunzione assoluta di pericolosità sociale sarà superata anche per l’accesso alle altre misure, consentendo la fine dell’ergastolo ostativo per qualcuno dei suoi destinatari.
Sul secondo punto, invece, va rilevato che la Corte fa un intervento additivo che rischia di rendere quasi impossibile l’accesso ai benefici dei condannati ostativi, salvo che il giudice di sorveglianza non decida con molto coraggio e indubbia capacità divinatoria. Quel che gli animosi sostenitori del carcere a vita hanno omesso di dire nelle loro invettive incostituzionali è che quello della collaborazione con la giustizia non è l’unico requisito speciale che grava sui condannati per reati ostativi nell’accesso a benefici e misure alternativi.
A esso si aggiunge la necessità per il giudice di sorveglianza di acquisire elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. E se l’indagine fosse superficiale, il procuratore nazionale o il procuratore distrettuale antimafia possono sempre porre il loro veto e impedire qualsiasi concessione di qualsiasi beneficio. A questa previsione, che la Corte non ha minimamente intaccato, se ne aggiunge ora un’altra, di incerta origine normativa e già anticipata nel prudente comunicato della Corte di ottobre: il giudice di sorveglianza dovrà acquisire elementi tali da escludere “il pericolo del ripristino” di collegamenti con la criminalità organizzata. Quali potranno essere questi elementi non è facile immaginare. Pura scienza divinatoria.
Insomma, con questa sentenza la Corte costituzionale ha felicemente ribadito i limiti e i fini costituzionali della pena, e di questo le siamo grati, ma non vorremmo essere nei panni dei giudici di sorveglianza cui spetterà affrontare istanze maturate in anni di detenzione e che dovranno affrontarle con un nuovo, imprevisto e difficilmente superabile parametro restrittivo.