Il Garante dei detenuti nel Lazio: “Solo così si costringerebbe la politica e l’autorità giudiziaria a rispettare il principio di extrema ratio, obbligandole a scegliere chi davvero è necessario che venga detenuto e chi invece no. Ma siamo diventati molto più intolleranti, anche solo parlare di amnistia o indulto provoca reazioni scomposte”.
Professor Anastasia, lei si occupa di giustizia penitenziaria e carceri da più di 35 anni: come è cambiato l’atteggiamento verso la devianza in questi anni?
Siamo diventati molto più intolleranti. Si pensi, per esempio, al fatto che nella Prima Repubblica abbiamo avuto ben 22 provvedimenti di clemenza generalizzata: si trattava di interventi di routine e socialmente accettati. Il fatto che si votasse un’amnistia o un indulto non provocava particolare indignazione: basti pensare a come nella commedia all’italiana di allora fossero frequenti i personaggi appena usciti dal carcere per un provvedimento di clemenza. Oggi siamo in tutt’altro scenario: anche solo parlare di amnistia o indulto provoca reazioni scomposte.
Cosa ha causato questo cambio di sensibilità?
La Seconda Repubblica nasce sulle ceneri di un sistema politico liquidato da inchieste giudiziarie, ma i segnali della nuova sensibilità erano già intuibili nella modifica costituzionale del 1992, che ha reso quasi impossibile approvare provvedimenti di amnistia e indulto. E, ancora prima, con la legge Iervolino-Vassalli che aumentava le pene per la detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Insomma, la sensibilità popolare stava cambiando, ed emergeva prepotente il cosiddetto “populismo penale”, sia verso l’alto che verso il basso. Vale a dire l’idea di poter e dover risolvere i problemi della società per via giudiziaria, sia quelli delle classi abbienti e influenti che di quelle più povere e marginali.
Come si saldano queste due dimensioni di “populismo penale”?
Ogni populismo è una lotta contro un nemico potente. Anche il tossico delle periferie o il piccolo delinquente sono visti come fattori di disagio causati da poteri più o meno occulti che ci impediscono di esser padroni a casa nostra. Il caso dei migranti è chiarissimo in questo senso: infatti si dice sempre che arrivano da noi per colpa dell’Europa. Perciò la rabbia verso i potenti si incarna in quella verso gli ultimi, e la reclusione in carcere può così sembrare una vittoria anche contro i potenti.
La politica ha cavalcato molto queste pulsioni…
Sicuramente. Ma a mio parere c’entra soprattutto il mutamento della nostra società. Un tempo si pensava che la conflittualità sociale, quella basata sulla classe o sul censo, per quanto aspra potesse portare a un maggiore benessere per tutti. Oggi invece con la venuta meno delle tradizionali strutture sociali e politiche il conflitto avviene non tra gruppi sociali ma tra gruppi identitari, ed è considerato a somma zero: o vinco io o vinci tu. Per cui la criminalizzazione dell’altro, il diverso o il nemico, rassicura rispetto alle proprie debolezze.
E invece i media che ruolo hanno avuto?
Enorme. La comunicazione odierna rende costantemente presente e prossimo qualsiasi fatto di violenza: anche quello che avviene molto lontano da noi nello spazio e nel tempo. Un tempo non era così. La cronaca nera esisteva, certo, ma era vista con maggior distacco: con una certa attrazione macabra come oggi, ma senza la sensazione che quello che succedeva in un’altra parte dell’Italia o del mondo ti potesse riguardare direttamente. Se a questo aggiungiamo il costante flusso sia di notizie che di fiction sul “true crime”, allora si capisce perché ci sia questa percezione diffusa di violenza e devianza.
Eppure i dati dicono chiaramente che criminalità e devianza sono in costante calo da anni…
Credo ci sia un circolo vizioso. Alla base c’è la diffusa incertezza e insicurezza esistenziali, a cui le classi dirigenti non possono davvero rispondere: vuoi perché impotenti rispetto a dinamiche sempre più globali, vuoi perché chiuse in un orizzonte di breve periodo. Allora si ricorre allo stratagemma più antico del mondo: l’individuazione del capro espiatorio, e quindi l’aumento della repressione e delle pene. E più aumentano le pene più cresce la percezione della devianza.
Ora però il gioco sembra arrivato al limite: le carceri esplodono…
Sì, ma quando si parla di sovraffollamento delle carceri le considerazioni si esauriscono nei posti letto e nei metri quadrati delle celle. Il che è sicuramente un tema importante, ma il fatto forse più rilevante è che ci sono meno risorse per ciascun detenuto. E quindi non solo meno spazi, ma anche meno opportunità per attività rieducative, per inserimenti lavorativi, per azioni di formazione, di supporto psicologico e di reinserimento sociale… Insomma, non dobbiamo cedere anche noi all’idea che il carcere sia solo un luogo in cui “parcheggiare” le persone che sbagliano.
Anche chi lavora in carcere è spesso vittima di pregiudizio…
Sì, e anche per questo la polizia penitenziaria soffre da sempre di un complesso di inferiorità rispetto alle altre forze di polizia. Un complesso che nasce dal carcere stesso, che in un certo senso infanga di sé chiunque lo tocchi. Magistrati, poliziotti, insegnanti, operatori… chiunque abbia a che fare con le prigioni è visto nel proprio gruppo sociale o professionale come uno “sfigato”. E poi c’è il contesto: si lavora in ambienti di per sé difficili, di privazioni della libertà, spesso lontani da casa …. L’ambiente, insomma, è logorante. Specie nel lungo periodo.
Cosa si può fare per cambiare la situazione?
Bisognerebbe lavorare su un cambio di mentalità che renda chi lavora nelle carceri il vero protagonista di quella finalità rieducativa della pena che è indicata dalla nostra Costituzione. Per farlo però bisogna intervenire sul territorio intorno alle carceri. Quelle che funzionano meglio sono infatti inserite in contesti che prestano attenzione alle condizioni di vita in carcere e, nello stesso tempo, offrono opportunità e supporto per il reinserimento sociale. Le alternative alla detenzione peraltro sono in grande crescita: dalle 3mila di trent’anni fa sono diventate oltre 60mila; più dell’intera popolazione carceraria di un tempo.
Anche perché aumentano i carcerati. C’entra il crescente ricorso alla detenzione preventiva?
Certamente. Anche se bisogna dire che il numero di detenzione cautelare è sceso negli ultimi anni dal 40-45% al 30%, rimane un problema enorme. Un conto infatti è imprigionare una persona che si ritiene possa compromettere le prove, un altro è farlo perché si pensa si possa sottrarre all’arresto o possa commettere altri reati. In modo particolare in questa seconda ipotesi, siamo di fronte a una pre-cognizione di un fatto che non è mai stato compiuto: come in Minority Report. Su questo sarebbe davvero necessario intervenire, perché contrario ai principi garantisti secondo cui il diritto penale interviene su fatti accaduti, non su ipotesi di reato future.
Anche perché chi viene incarcerato preventivamente di solito è un povero marginalizzato…
Esatto. Abbiamo le carceri piene di persone senza fissa dimora, con problemi di salute mentale o dipendenze e che sono lì per reati minori. Le nostre prigioni sono diventate ospizi per i poveri. Che il sistema vada ripensato è oramai sotto gli occhi di tutti. Anche perché abbiamo decenni di studi e di prove a dimostrare che non funziona per diminuire il crimine e la devianza, ma anzi ha l’effetto opposto.
Cosa si potrebbe fare, nel breve?
Direi che per cominciare è importante fare in modo che le carceri possano dire di no. Bisognerebbe fissarne un limite massimo di capienza invalicabile, commisurato non solo agli spazi, ma anche alle disponibilità di personale, di assistenza socio-sanitaria e di offerta trattamentale. Solo in questo modo si costringerebbe la politica e l’autorità giudiziaria a rispettare il principio di extrema ratio, obbligandole a scegliere chi davvero è necessario che venga detenuto e chi invece no.
Lei ha scritto, assieme a Luigi Manconi e altri, il libro “Aboliamo il carcere”: un’utopia?
Forse no. Bisogna ricordare che all’inizio il carcere non serviva a scontare una pena, ma solo a trattenerle in attesa del processo. Se il punto è restituire un debito alla società ci sono molte forme diverse alternative alla detenzione per farlo, anche molto sperimentate. Poi certo, ci saranno casi estremi di persone così pericolose da volerle tenere fuori dalla società almeno per un certo tempo: ma questo è già un orizzonte molto diverso, perché non si parlerebbe più di detenzione come mezzo punitivo o addirittura riabilitativo, ma – più sinceramente – come strumento di prevenzione e sicurezza.
(Intervista pubblicata su huffingtonpost.it del 5 novembre 2023)