Secondo i dati raccolti da Ristretti orizzonti nel suo dossier Morire di carcere, con gli ultimi tragici casi di Torino e Reggio Calabria, siamo a 77 suicidi accertati nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, il numero più alto di sempre (solo nel 2009 a fine anno i suicidi superarono le 70 unità, fermandosi però a 72). I suicidi costituiscono il 51% dei casi di morte registrati in carcere nel corso dell’anno, e anche questa è una percentuale mai così alta dall’inizio del secolo (non era mai arrivata al 50%, solo il 2018 registrò un 45% di suicidi sul totale dei morti in carcere nel corso dell’anno). Ogni caso è caso a sè, con la storia di quella persona e della sua disperazione, ma il dato generale è impressionante ed è indice di una generale mancanza di speranza nelle nostre carceri.
Salvo poche, ammirevoli, esperienze di sostegno e accompagnamento al reinserimento sociale, la grande maggioranza dei detenuti e delle detenute vive la carcerazione come un periodo più o meno lungo di abbandono. Se le stelle non si allineano in cielo (una forte motivazione personale e una solida rete di sostegno familiare fuori, personale penitenziario quantitativamente adeguato e qualitativamente capace e motivato in istituto, un territorio ricco e capace di accogliere e accompagnare una persona proveniente dal carcere, una magistratura di sorveglianza sensibile e determinata a scommettere sulle alternative alla detenzione e l’ufficio di esecuzione penale esterna che ce la fa), senza questa congiunzione astrale favorevole, la gran parte dei detenuti e delle detenute sono costrette ad aspettare l’ultimo giorno di pena per venirne fuori, spesso avendo perso legami affettivi e familiari, talvolta un lavoro, sempre un po’ di salute e di fiducia in se stessi.
In quel momento, quando il “liberante” si affaccia sulla soglia del portone del carcere, con la sua busta di masserizie residue di anni o mesi di detenzione, spesso senza sapere dove andare, in ognuno di quei momenti si consuma una sconfitta dello Stato, incapace di attuare l’articolo 27 della Costituzione che obbliga le istituzioni, con il concorso della società esterna, ad accompagnare il condannato nel reinserimento sociale, avendogli offerto mezzi e strumenti per una vita diversa. Invece sappiamo che il 30 giugno scorso, 7.658 dei 38.959 condannati in via definitiva scontavano pene inferiori ai tre anni, generalmente ammissibili ad alternative alla detenzione, e addirittura 6.996 avevano un residuo pena inferiore a un anno, prossimi quindi a raccogliere le proprie masserizie per andarsene, eppure ancora in carcere.
Paradossalmente, l’emergenza pandemica dava più stimoli a sopravvivere, facendo sentire i detenuti, seppure chiusi in carcere, parte della società esterna, anch’essa alle prese con la prevenzione e la cura del virus. Ma oggi il carcere è tornato a essere un luogo di isolamento e di disperazione, e il numero di suicidi ne è una drammatica testimonianza. Sulla carta, quel che andava fatto è stato fatto: un piano nazionale di prevenzione del rischio suicidario, decine di piani regionali, centinaia di piani per ogni singolo istituto. Ma la carta non basta, e neanche l’abnegazione degli operatori, a cui non è possibile imputare, a ciascuno di essi singolarmente, la responsabilità di una morte scelta volontariamente da una persona disperata. Se non vogliamo rassegnarci a questa tragedia, o scaricarne la responsabilità sugli operatori penitenziari e sanitari in trincea, bisogna veramente ridurre il carcere a extrema ratio e aprirlo alle attività e al mondo esterno. In questo modo, solo in questo modo il sistema penitenziario può farsi carico di chi debba effettivamente scontare una pena in carcere, e magari – con il concorso della società civile e degli enti territoriali – offrirgli le condizioni per un migliore reinserimento sociale.
Ancora nei giorni scorsi abbiamo risentito la solita litanìa: bisogna costruire nuove carceri per ridurre il sovraffollamento. Ma perché? Per tenere in carcere anziani malati condannati a pochi mesi di carcere, o giovani soli o indisciplinati? Il carcere in Italia è un grande ospizio dei poveri. Gli autori di gravi reati contro la persona o in associazione con organizzazioni criminali non arrivano a 30mila unità. Perché tenerne in carcere 56mila, e domani 60 e dopodomani 70, come qualcuno pensa sia giusto prevedere? Per dare al carcere la funzione che fu dei manicomi, di custodire la devianza e la marginalità sociale, allora etichettata come folle, oggi come criminale (quando non l’una e l’altra cosa insieme)?
30mila o 70mila detenuti? Che società vogliamo essere? Extrema ratio o ospizio dei poveri? Investire nel reinserimento sociale o nella costruzione di nuove carceri? Dalla risposta a queste domande vengono tutte le scelte politiche successive, e anche la chance di restituire ai detenuti la speranza in un futuro degno di essere vissuto.
* Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Lazio, Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà
(Articolo pubblicato su Il Riformista di venerdì 11 novembre 2022)