di Stefano Anastasìa
Sono brutte giornate, queste, per il sistema penitenziario del Lazio. Oggi la notizia di un suicidio a Rebibbia femminile, di una donna con problemi di dipendenza e che aveva manifestato insofferenza e aggressività nei confronti degli operatori penitenziari, ma mai di sé stessa.
Ieri, nel reparto di medicina protetta dell’Ospedale Pertini, è morto un uomo di cinquantasei anni, già detenuto a Velletri, dove gli era stato trovato un tumore in stadio avanzato contro cui non è stato possibile fare nulla, se non accompagnarlo verso la fine, sperando (peraltro senza riuscirci, per le solite farraginosità burocratiche) di consentirgli di spegnersi in un hospice, in condizione di detenzione domiciliare.
A Viterbo, invece, in carcere è stato trovato morto un uomo di trentotto anni, probabilmente per un abuso di alcol e farmaci. In ciascun caso, com’è di prassi, ci saranno accertamenti disposti dall’autorità giudiziaria. Per ognuno di essi ne ho avuto notizia dai dirigenti sanitari che, in particolare nel caso della morte annunciata del paziente del Pertini, hanno fatto di tutto per alleviargli le sofferenze e per consentirgli di morire (quasi) in libertà.
Certo, per ognuna di queste morti bisognerà rivedere cosa è stato fatto e cosa di meglio si sarebbe potuto fare, e rivedere i protocolli conseguenti, ma salvo che dalle indagini disposte dall’autorità giudiziaria non emergano fatti nuovi, non serve cercare colpevoli a goni costo di tragedie che, purtroppo, sono all’ordine del giorno nelle nostre carceri.
Il problema sono, appunto, le nostre carceri, costrette a essere luoghi di contenzione del disagio e della sofferenza psichica, ospizi dei poveri, spesso insopportabili fino all’abuso di sostanze.
Inizia nei prossimi giorni una nuova campagna elettorale per le elezioni politiche nazionali. Speriamo in parole misurate che siano anticipazioni di politiche sagge, che restituiscano alla società i suoi problemi di accoglienza e di sostegno sociale e riportino il carcere a quella condizione di extrema ratio che sola ne può consentire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e l’impegno al reinserimento sociale dei condannati.