Giustamente la Conferenza del volontariato della giustizia ha promosso un appello, rivolto alle direttrici e ai direttori delle carceri italiane, affinché esercitino la discrezionalità che l’ordinamento penitenziario riconosce loro per garantire colloqui, telefonate e videochiamate oltre le ordinarie previsioni normative.
Quante volte, nei mesi più difficili della pandemia, ci siamo detti che non si sarebbe potuto tornare indietro, allo status quo ante? La pandemia ci ha mostrato l’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario, l’insostenibilità del carcere “ospizio dei poveri” e della sua chiusura all’esterno, alle tecnologie e agli affetti. Nell’emergenza sono state adottate misure capaci di scavalcare le barriere della comunicazione e di integrare i servizi sociali territoriali nella presa in carico delle persone bisognose di accoglienza sul territorio. Ora che della pandemia sembriamo dimenticarci, con un tipico atteggiamento di rimozione della sofferenza patita, non possiamo dimenticarci che quelle misure di emergenza supplivano incapacità strutturali del nostro sistema penitenziario, non possiamo tornare allo status quo ante.
Tra le principali inadeguatezze del nostro sistema penitenziario ci sono quei micragnosi dieci minuti di telefonata alla settimana (ogni due settimane per chi è in alta sicurezza) che somigliano tanto alla settimanale telefonata a casa della mia generazione, tra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso, durante la naja, le vacanze o da studenti o lavoratori fuori sede. Una cosa, appunto, del secolo scorso, letteralmente inconcepibile per i ragazzi di ora, ma anche per noi, ragazzi d’allora, che invecchiamo con un cellulare sempre acceso in tasca o sul comodino.
Quella norma di regolamento andrebbe cambiata, lo abbiamo detto tante volte, anche attraverso una proposta di legge fatta propria dal Consiglio regionale della Toscana nella passata legislatura. Ma intanto che quella norma non viene cambiata, l’Amministrazione penitenziaria può e deve esercitare tutto il suo potere derogatorio per consentire alle persone detenute di mantenere la frequenza di comunicazione con i propri cari che è stata sperimentata in pandemia. Non solo per non tornare indietro, ma anche perché quel drammatico numero di suicidi in carcere nello scorso anno ci dice che, passata la tensione della pandemia, in carcere è più forte il senso di abbandono e non c’è miglior prevenzione del rischio suicidario in carcere che non passi per la frequenza e la vitalità delle relazioni con l’esterno, con i propri familiari e con i propri affetti.
Speriamo che l’Amministrazione penitenziaria, i suoi vertici, le direttrici e i direttori ascoltino la voce dei dell’associazionismo e del volontariato, in attesa che quella norma del secolo scorso sia finalmente cambiata.